Cosa resta della bellezza
FILOSOFIA
Il senso del valore estetico
Le Recenti vicissitudini legate agli eventi in Ucraina ci hanno messo davanti alla desolazione della guerra. Le immagini di distruzione non rappresentano una novità in assoluto, ma pongono, una volta di più, il quesito del fine e del senso di tutto ciò. Riflessione da cui scaturisce la necessità di capovolgere lo sguardo ed aspirare ad altro di più elevato. E’ quindi da questa necessità che il tema della bellezza e dell’etica tornano prepotentemente alla ribalta, di come queste due forme di conoscenza del mondo, siano strettamente legate l’una all’altra. Due facce della stessa medaglia che – a dire degli antichi greci – hanno un unico significato finale: l’ eccellenza e la virtù. Due aspetti cui l’unico bisogno è di elevarsi verso il divino.
Il punto dolente sta proprio nella perdita del divino in occidente, dove il funzionalismo astratto, ha separato etica ed estetica a danno di quest’ultima. Resta quindi l’etica, funzionale alla organizzazione di una società, che richiede sempre più ruoli specifici, una sorta di necessità correlata a norme riguardanti i vari aspetti tecnici e professionali, tipici della complessità contemporanea e della contingenza opprimente.
Proprio in questa crescente complessità, la bellezza, come valore supremo, è stata completamente eliminata, in quanto ostacolo alla efficienza, alla velocità e alla misurabilità economica. I valori estetici diventano quindi anti-economici e poco funzionali. I valori dell’etica, del lavoro profittevole e della razionalizzazione hanno spaccato il connubio bellezza – etica in nome di una sorta di giustizia ascetica e funzionalista che è diventata quasi una religione essa stessa.
Polis ed economia
Riprendendo quindi il concetto di etica, nelle nostre città, riecheggia sempre il classico cosmopolis, ovvero la perfezione, l’ ordine del kosmos, riportato nella polis, come rappresentazione del giusto fare etico ed estetico, nelle vicende degli insediamenti urbani. In altri termini, quello che dovrebbe fare la politica, riportare la bellezza e la perfezione del cosmo, nella gestione della cosa pubblica in una accezione più contemporanea.
Dal momento che l’economia è sempre più centrale nella politica e ne indirizza il “corretto” procedere, essa richiede sia ai politici sia a tutti gli altri soggetti interessati, comportamenti di onestà e trasparenza. Nel tempo, però non sono più promossi da sentimenti morali, ma da necessità utilitaristiche di bilancio, di budget, di efficienza ed efficacia, come ci hanno ampiamente spiegato.
L’etica pertanto si è incamminata in una percorso che gradualmente ha perso contatto con le sue basi filosofiche e con i dei relativi valori estetici di cui ne era una faccia della medaglia.
Il modello del libero mercato, richiede anch’esso una etica, con norme chiare e precise nel suo ambito, difatti il concetto del “libero” interessa la possibilità degli scambi commerciali tra paesi, per ottimizzare, ai fini del profitto, le distanze e le differenze.
Molto spesso capita invece che un disoccupato non riesca a trovare lavoro in un’altra nazione perché gli è precluso il trasferimento, mentre i capitali sono liberi di andare a cercare le migliori condizioni e opportunità possibili.
Il principio di etica, diventa quindi opportunità e possibilità di circolazione di capitali: in altri termini chi è ricco diventa sempre più ricco, può muoversi liberamente nel mondo, aprire società off-shore in paradisi fiscali. In questo caso l’applicazione dell’etica, della libertà, si è fatta legge, ovvero un paradosso che produce ingiustizia.
Alcune spinte economiche diventano anche fonte di brutture e di ingiustizie sociali, addirittura contrarie alle ragioni dell’estetica e della bellezza che anzi ne rappresenta un fastidio, un impedimento. Storture, brutture e volgarità espresse anche nella comunicazione di massa, in tutte le sue forme di entertainment che intrattengono l’uomo, o meglio lo “trattengono”, diventano riempimento di alcune porzioni del suo tempo tra i suoi impegni produttivi, momenti intra-tempo che colmano appena qualche vuoto, non avendo profondità. Forse ci tranquillizzano o ci anestetizzano, ma ben poco hanno a che fare con la bellezza, anzi ne sono nemiche, in quanto orientate al consumo effimero e al consenso senza senso.
Una sostanziale ritirata sul piano teorico e culturale, perché in quanto “trattenuto” l’individuo, in quella condizione, non riesce a sollevare lo sguardo.
Declino della estetica
Il campo dell’estetica si è quindi ridotto all’arte ed alcune attività economiche legate al lusso e all’industria del cosiddetto “bello”. Il mondo dell’arte quindi ridotto in un contenitore a pagamento, dove si fa la fila per avere a disposizione qualche istante, senza la possibilità della contemplazione e tanto meno dell’estasi che richiede silenzio e immersione profonda nella bellezza fino a perdersi.
Pertanto l’arte resta sempre arte, ma classificata a livello accademico o da vendere nelle gallerie d’arte, un’attività incanalata verso strettoie predefinite e corporative che hanno come sfondo il profitto. Non è più quindi una esperienza totale d’abbandono o un rituale catartico collettivo, come avveniva nel teatro greco, per la popolazione a cui si offriva. Diventa quindi un’opera da classificare, etichettare mettere a catalogo con la sua eventuale bella valutazione per qualche riccone oligarca, petroliere o gigante del web che la nasconderà al resto del mondo in qualche caveau, dove si conclude il viaggio dell’opera d’arte che – invece – dovrebbe produrre il sublime, l’indicibile, la sospensione e la meraviglia a favore di tutti.
D’altro canto la produzione del bello, per quel che attiene le attività umane, troppo spesso sconfina nel kitsch. L’ avvento di nuovi ricchi che avendo vissuto spesso in situazione di bruttezza, nei luoghi dai recenti passati storici, densi di oppressione, razionalismo e dittature, danno sfogo alla ricerca del bello, attraverso la ostentazione e il consumo vistoso, oltrepassando quel senso della misura che tanto era decantata anche dall’oracolo di Delfi “tutto, ma nella giusta misura”
Praticamente il lusso sfrenato che si fa patologia, esacerbando la desinenza di lux non come “luce”, ma luxus, come fuori posto “lussato”, in questo senso la bellezza per chi la concepisce, nel lusso sfrenato, ci propone l’esclusione dell’altro che, per questi signori, non significa certo educazione al bello, all’elevazione, ma semplicemente tracciare una differenza tra sè e gli altri.
Nuove etiche
Così osserviamo che la bellezza e la estetica è stata fortemente influenzata, come dimostrato anche da Max Weber, nell’affermazione dello spirito religioso della Riforma protestante da cui ha preso forma il capitalismo, fino alle attuali forme esasperate. La riforma rifiutava la mediazione della chiesa, ne vietava le immagini divine, come del resto nell’Ebraismo e nell’Islam. Si tornava quindi alla purezza alla moralità inflessibile, dove il godere era il male in sé. Il puritanesimo esortava la moderazione, sia in cucina che nei sapori stessi, rifuggire quindi anche ai piaceri della tavola. Uno spirito pratico, caratterizzato dal rifiuto per le decorazioni e attenzione al tempo produttivo che hanno costituito l’ossatura della dedizione razionalista americana e nord-europea al lavoro. Tutto questo rafforzato dal fatto che se un protestante realizzava il proprio benessere economico e materiale, dava dimostrazione agli altri di essere benvoluto da Dio, a differenza del “nostro” più evangelico: “è più facile che passi un cammello per la cruna di un ago che un ricco varchi le porte del paradiso”. Praticamente siamo agli antipodi.
Una etica ferrea, quindi sospettosa della estetica pura, se non inserita in logiche finanziarie o di processi produttivi finalizzati al “giusto” profitto.
Questo sistema di valori del mondo anglosassone, anche in virtù delle due schiaccianti vittorie nelle guerre mondiali e nella successiva guerra fredda, si è imposta con la globalizzazione del dollaro e hanno accentuato i processi di, secolarizzazione e laicità. Laicità che non è riuscita a fare propri i valori della solidarietà, della fratellanza, come vanamente promesso dall’illuminismo.
Razionalismo che invece ha favorito la scomparsa di quei luoghi di condivisione, chiese, piazze, teatri, dove etica e bellezza si incontravano e si esprimevano negli universi consensuali delle celebrazioni pubbliche, dei riti religiosi e degli incontri quotidiani nelle nostre piazze, decorate di bellezza, di vitalità e senso.
I luoghi principali della vita sociale, nella conformazione di quella . “città ideale”, dove troviamo sempre la piazza, come centro di incontro, i templi del culto, i palazzi della amministrazione e della sicurezza cittadina.
Questi luoghi sono stati poi sostituiti dai non luoghi, centri commerciali o dalle avenue, dalle street dello shopping e più di recente da non luoghi virtuali. La recente architettura urbana, fa muovere gli uomini da un posto all’altro, per ragioni economiche, non per farli incontrare. Nei nuovi templi, l’uomo adora se stesso, il suo sapere e le sue decisioni tecnico scientifiche, il suo narcisismo e fa affari; dove per inchinarsi all’umano troppo umano, gli individui rinunciano al sovra-umano che faceva abitare la bellezza nei templi, nelle piazze (l’agorà) dove si incontravano.
La storia purtroppo non ci sta consegnando alternative. L’ etica si trova stritolata in una morsa tra l’erosione dei valori tradizionali in ogni angolo della terra e dall’altra l’avanzata di forze isomorfe, economiche cieche alla morale, legate al profitto come unico valore e conseguenza estrema di questo neoliberismo rapace.
Cosa resta della bellezza ?
Gli americani usano per indicare l’innamoramento, “fall in love”, forse uno dei pochi termini che rende l’idea di quell’istante che ci porta all’eternità, perché si “cade” letteralmente, in quel momento dove tutto si sospende, perdiamo il controllo di noi stessi. Non si oppone nessuna resistenza, una pietra di inciampo (parafrasandone il reale significato), si cade e ci si lascia andare. Comunque vada, quando ci si rialza, si raccoglie sempre qualcosa da quella esperienza e torniamo ad alzare gli occhi al cielo. Allo stesso modo si viene rapiti davanti alla bellezza, quella vera che precede l’abbandono o il venire meno che gli psicologi hanno definito sindrome di Stendhal, quell’effetto di smarrimento che persone dotate di una certa sensibilità e cultura provano davanti ad una opera d’arte.
Una esperienza che allarga l’anima e l’essenza stessa della persona, che ha necessità di espandersi, perché non può più vivere ristretta nella bruttura.
Il problema in altri termini, diventa anche etico; benché la bellezza apparentemente “stia in sé e da sé”, diventa promotrice anche della vera etica, quella che porta la perfezione del cosmo, nella “polis” – per intenderci. La necessità di ritrovare l’armonia che si realizza tra etica ed estetica. Offrire il bello diventa naturalmente giusto e quindi etico. Essa non necessita di crociate contro il male. Essa è generosità, è dono e visione di chi la propone, tutti possono esserne beneficiari, perché come un dono, innesca la reciprocità di restituzione e quindi di comportamenti adeguati.
La bellezza è anche esperienza soggettiva, è di chi la realizza, consapevole di un “lavoro ben fatto” – come ricordava il capo operaio Faussone ne “La chiave a stella” di Primo Levi. Il lavoro ben fatto che rende soddisfatto chi lo esegue e chi lo riceve. Lavoro che dovrebbe essere ben pagato e riconosciuto a differenza di chi – invece – ne comprime sempre più i diritti, il riconoscimento e ne svilisce l’identità, la dignità dell’uomo, perché ridotto a merce anche esso, come mezzo e non come fine ultimo di tutte le cose.
Infine bellezza è anche il dono di un incontro, di uno sguardo che riesce a suscitarti ancora meraviglia e stupore, sebbene si creda di avere colmato tutte le esperienze possibili e di conoscersi abbastanza bene. Belle che rappresenta ancora una pietra di inciampo in cui abbandonarsi e perdersi nella contemplazione che fa riemergere i nostri sogni, le nostre umane paure, ma ci dona la forza per assumersi il rischio di affrontarli, realizzarli; l’amore per la vita, le cose belle e vere.
di Marco Ricciotti