Tutta colpa dei professori
La scuola in rovina
Il fatto
Un ragazzo “bullizza” un professoressa di un Istituto superiore in Veneto. Neanche il tempo di rendersi conto della gravità del problema che i pedagoghi da tastiera iniziano a sproloquiare. Chi gli darebbe uno schiaffo, chi lo boccerebbe, chi accusa le famiglie, chi ricorda quanto fossero educative le bacchettate sule mani. Chi se la prende con la professoressa.
Qualcuno sostiene che “queste cose” accadono solo negli istituti tecnici ed in quelli professionali, dove il ceto sociale è più basso. E’ vero, negli istituti più “in” il bullismo non è quasi mai verso i professori ma verso i ragazzi meno abbienti. Sono quei licei in cui, quando la Polizia entra per i giusti e sacrosanti controlli antidroga, si rivoltano professori e genitori che rivendicano il diritto dei loro pargoli di “provare” e magari “sbagliare” senza intromissioni da parte delle istituzioni deputate ai controlli. Questa è l’ipocrisia 2.0.
La Famiglia: a cosa serve?
La famiglia è il primo posto dove, tramite l’interazione con gli altri, un membro di una società inizia ad imparare i suoi ruoli e di conseguenza, avvia la sua socializzazione. Parlare della famiglia è quanto di più difficile si possa fare al giorno d’oggi poiché, negli ultimi 40-50 anni, la stessa ha subito una trasformazione così impegnativa e così profonda, rispetto ai 1000 anni precedenti, da non sembrare più la stessa istituzione. Siamo passati dalla famiglia allargata con i nonni della cultura contadina, a quella dell’uomo lavoratore che è atteso dalla mogliettina, casalinga perfetta e tuttofare dell’iconografia americana anni ‘50, alla famiglia nucleare in cui entrambi i componenti lavorano ed i bambini iniziano a scoprire l’asilo degli anni ‘70, alle famiglie allargate di chi, divorziato, si risposa e include, nella nuova entità, anche i figli del precedente matrimonio; siamo arrivati a discutere di famiglie monogenitoriali e omogenitoriali, in cui mamma e papà non sono più indispensabili.
La famiglia, qualunque essa sia, è il luogo della socializzazione primaria, è qui che avvengono le prime interazioni in cui, i nuovi membri imparano come ci si comporta nella società, quale ruolo hanno nella vita sociale e come saranno “attrezzati” per il futuro.
La scuola: una fabbrica di analfabeti (funzionali)
Con lo strutturarsi di famiglie, non più allargate ai nonni, in cui entrambi i genitori lavorano, è nata l’esigenza di un’attività scolastica che fosse educativa, socializzante e al tempo stesso, un posto sicuro a cui affidare i figli, in poche parole: la scuola dell’infanzia. Attualmente è in questa sede che avvengono le prime interazioni al di fuori dell’ambiente familiare e si preparano i bambini all’approccio della scuola primaria. I bambini della scuola dell’infanzia iniziano ad apprendere le prime competenze che, ormai, la scuola primaria non fornisce più; ad esempio, si fanno i primi disegnini, le stanghette e i cerchietti sui quaderni, attività che 50-60 anni fa costituivano i primi sei mesi di scuola elementare.
I genitori, al giorno d’oggi, stanno sempre di più affidando la socializzazione primaria alla scuola e alle attività del doposcuola, per alcuni è un’esigenza lavorativa, per gli altri un vero e proprio demandare una funzione genitoriale ad un’altra istituzione. Per farla semplice, 50 anni fa i bambini andavano alle elementari, facevano i compiti a casa e andavano a giocare al pallone nel cortile. Al giorno d’oggi, la tendenza, che va per la maggiore, è di ritirare i bambini più tardi, liberi dai compiti e spedirli immediatamente a fare scuola calcio (o un altro sport o un’altra attività culturale). Per i genitori il tempo rimanente è quello dell’orario di cena, del sabato e della domenica, tra una gita, la casa o il centro commerciale.
Sono cambiati anche i rapporti tra genitori ed insegnanti riguardo ai figli, se, prima della cultura di massa, la maestra era una persona colta e degna di attenzione che aveva quasi sempre ragione, ad oggi, il rapporto è totalmente cambiato; i genitori diventano i difensori dei figli contro i “soprusi” di maestre e professori e questi ultimi, corrono ai ripari. Non è infrequente il ricorso di alcune maestre per avere un aiuto in più, un “sostegno” per la classe e per i professori a diminuire la selettività che la scuola, dovrebbe, in qualche modo, mantenere.
Le classi successive, rispetto alla scuola primaria, forniscono maggiori competenze, alcune di queste, come per la scuola secondaria superiore, sono molto specialistiche e dovrebbero avviare al mondo del lavoro. Nelle classi successive alla scuola primaria (e nelle attività del dopo scuola) si acuisce il senso di competitività (non deve essere vista necessariamente in un’accezione negativa) che è anche implementato dalle aspettative della famiglia che, spesso, crea più di qualche nodo problematico.
La scuola è un settore così complesso che, in Italia, quasi ogni governo che sia succeduto negli ultimi 30 anni, ha voluto mettere mano alla sua organizzazione, il risultato, a voler essere cattivi, peggiora di anno in anno. Non sembra così, ma solo perché gli analfabeti, nel 1861 erano il 69% degli italiani, nel 1921 erano 27%, nel 1961 erano al 8,3%, per ridursi a meno del 2% nel 2001 (dati ISTAT).
Il “peggioramento” non è dato da un aumento del numero degli analfabeti tout court ma da quelli che hanno un titolo di studio, sanno leggere e scrivere ma, nella vita quotidiana, non sanno cosa farsene, non hanno cioè gli strumenti per capire quello che leggono, sanno scrivere parole ma non elaborare un concetto: sono gli analfabeti funzionali. Secondo un rapporto dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico):
“Oltre un quarto degli italiani, il 28%, si piazzano a livello più basso, o addirittura al di sotto di tale livello, per competenze in lettura… quasi un terzo della popolazione che leggendo un libro o qualsiasi altro testo scritto riesce ad interpretare soltanto informazioni semplici. Stesso discorso quando occorre confrontarsi con dati, tabelle e grafici. Gli italiani che si piazzano ai livelli più bassi – al primo livello o sotto il livello più basso – sono addirittura 32%” (così S. Intravia su dati OCSE).
L’analfabetismo funzionale non sempre viene mitigato dalla frequenza universitaria.
I professori: un disastro
Il lavoro del professore si dovrebbe basare sull’autorevolezza. L’autorevolezza è quella caratteristica che viene riconosciuta a chi sa e di cui ci si fida. Si insegna grazie all’autorevolezza, questa va conquistata “sul campo” e fa la differenza tra un buon insegnante ed un incapace. Una volta l’autorevolezza derivava dal ruolo. Il professore era bravo perché era “professore” ma al giorno d’oggi, qualsiasi docente non incute più il “sacro timore” a studenti e genitori che gli derivava da superiori conoscenze, dalla serietà della scuola e dal fatto che una volta bocciati non c’era appello ma il lavoro nei campi o nelle fabbriche, ora il “professore” deve dimostrare di esserlo. Sarebbe un lavoro bellissimo anche se dopo il ’68, sono arrivati i “6” politici, gli esami comuni, i crediti regalati, i diplomi e le lauree date per “anzianità” e le competenze non sono più così importanti. Il mestiere di docente (elementare, medio o superiore) non è più ambito come missione educativa prestigiosa, ma perseguito da chi cerca un posto statale, pagato poco ma garantito dallo stipendio sicuro, con la malattia pagata, le poche ore settimanali di lavoro e le ferie d’estate.
Le scuole sono diventate i laboratori del “nulla”, serbatoi di “nullafacenza”, in cui la trasmissione di valori – uno dei più importanti compiti dell’istituzione – non esiste. I professori sono costituiti da un universo dei differenti dialetti italiani, troppo spesso svogliati, disinteressati ed incapaci a comunicare contenuti che a volte neanche conoscono. Professori/esse (e maestri/e) antivaccinisti, sostenitori del “signoraggio” bancario, del complotto per lo sbarco sulla luna, che troppo spesso trasmettono la loro ignoranza ai ragazzi.
Il professore è un formatore ed in primis deve conquistare il rispetto dei suoi studenti, tramite 3 semplici passaggi: trasmettere l’amore per quello che insegna, trasmettere competenze, facilitare il percorso di conoscenza. Ce ne sono di professori di questo tipo ma sono troppo pochi (anche se stimatissimi), persi in una moltitudine di gente che se ne frega. Stiamo sfornando una generazione di analfabeti funzionali, maleducati e prepotenti. Sembra che non interessi a nessuno, anzi, il più delle volte, chi è deputato ad educare si gira dall’altra parte. Tutti danno la colpa all’altro, la scuola accusa le famiglie, le famiglie la scuola e tutti che sperano in una riforma che risolva. Come se bastasse un’altra riforma, l’ennesima. Come se non fosse già abbastanza inutile la “buona scuola” e l’alternanza scuola/lavoro in cui, per avere un curriculum, i nostri ragazzi lavorano gratis. Lavorare gratis si chiama schiavitù: fare i caffè (in totale autonomia) in un bar autostradale non insegna nulla del lavoro, insegna solo a fare i caffè e alle aziende garantisce un lavoratore gratis. Pochissimi i docenti che si sono ribellati a questo sfruttamento, nessuno che abbia detto: “siamo in grado di fornire le competenze necessarie per far lavorare i ragazzi e lo garantiamo con il superamento dell’esame di maturità. Non abbiamo bisogno di trasformare i nostri studenti in prestatori d’opera gratuiti”.
Se è vero che per ogni generazione precedente la successiva è peggiore è pur vero che migliorare la scuola si può e si deve. Non si risolve se le due istituzioni di socializzazione – famiglia e scuola – non si prendono le proprie responsabilità. Entrambe devono educare e non accusarsi a vicenda di non fare il proprio ruolo. Responsabilità dovrebbe essere la parola d’ordine, che vuol dire che i docenti si rendano conto del loro ruolo, i genitori a supportare i primi e gli studenti che devono essere messi in grado di amare il sapere. Per questo, alla fine, la “partita” è in mano ai docenti, perché, anche se in carenza di supporto da parte delle famiglie, possono dosare nel migliore dei modi autorevolezza ed autorità.
Le scuole non sono luoghi in cui vige l’anomia ma luoghi di diffusione di valori e sapere. Ricorrere all’autorità vuol dire che l’autorevolezza ha fallito – e non va bene – ma permette comunque di veicolare un messaggio educativo. L’esempio è sulla droga: se un ragazzino non maggiorenne spacciasse marijuana in classe, quale sarebbe il ruolo del docente? In primis educare sulla pericolosità della droga ed essere così convincente da togliere “clienti” allo spacciatore. Nel caso dovesse fallire, dovrebbe denunciare il reato, cosi come previsto dal nostro codice di procedura penale (la denuncia è un obbligo ai sensi del 331 c.p.p.) agli organi competenti. Autorevolezza e capacità d’insegnamento sopra tutto ma senza dimenticare che esiste, in casi estremi, l’autorità. L’autorità è quella che dispensa punizioni che dovranno poi essere rieducative e adeguate al comportamento agito dallo studente.
Una punizione non rovina la vita, molto spesso la salva.
di Leandro Abeille