La libertà di stampa 2021: tra l’esempio di Ruhollah Zam e i fake producers.

 

 

Di Cristina Degliatti

Sono 50 i giornalisti uccisi nel 2020, 937 negli ultimi dieci anni questa è la denuncia di Reporter senza frontiere (RSF), che nel suo rapporto annuale sulla libertà di stampa in cui si evidenzia che la grande maggioranza dei reporter sia stata deliberatamente uccisa perché indagava su argomenti quali corruzione, criminalità organizzata o degrado ambientale. Eppure ogni 3 maggio si celebra la giornata mondiale dedicata alla libertà di stampa e alla sicurezza dei giornalisti chiamata “World Press Freedom Day”, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993, dietro la raccomandazione della Conferenza Generale dell’Unesco. La data è stata scelta per ricordare un evento storico per il giornalismo.

La libertà dei giornalisti

Dal 29 aprile al 3 maggio del 1991 a Windhoek (Namibia) si tenne un seminario dell’UNESCO per promuovere l’indipendenza e il pluralismo della stampa africana (Promoting an Independent and Pluralistic African Press)  che portò alla redazione della Dichiarazione di Windhoek. Il documento contiene un’affermazione dei principi in difesa della libertà di stampa, del pluralismo e dell’indipendenza dei media come elementi fondamentali per la difesa della democrazia e il rispetto dei diritti umani. La Dichiarazione è un richiamo esplicito all’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo il quale sancisce che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione, tale diritto include la libertà di opinione senza interferenze e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza frontiere”.

Al di là delle dei principi espressi nel documento, in molte nazioni in sono evidenti le limitazioni alla libertà d’opinione. Secondo il Report 2020 di RSF, i posti peggiori dove fare il giornalista sono: la Korea del Nord (il più pericoloso al mondo), Cuba (171^), l’Arabia Saudita (170^), l’Egitto (166^). In Italia siamo al 41^ posto, tra la Repubblica Ceca e la Corea del Sud, tutto sommato meglio dei celebratissimi USA (45^), del Giappone (66^) e della Russia (149^). Se da noi pesano la poca indipendenza delle testate e il numero spropositato di querele, in paesi come la Cina (177^) si condanna a 4 anni la blogger Zhang Zhan che, al di là della retorica comunista, ha raccontato Wuhan durante l’epidemia di Covid 19 o l’Iran (173^) in cui, quando il regime teocratico è in difficoltà, si limitano le libertà dei propri cittadini e quella della stampa fino alla detenzione e alla condanna a morte degli stessi reporter.

Un vero martire ed un esempio

E’ un esempio il giornalista Ruhollah Zam, impiccato dal regime iraniano il 12 dicembre 2020, perché accusato dalla sentenza della Corte Suprema di gravi reati commessi contro la repubblica islamica dell’Iran, per reati di “corruzione sulla terra ” per aver gestito un popolare forum antigovernativo, che secondo i funzionari aveva incitato le proteste iraniane del 2017. Il giornalista dissidente in Francia era, infatti, il fondatore del canale “Amad News” ( Sedaiemardom – letteralmente – Voice del Popolo) con più di un milione di seguaci su elegram, utilizzato dalla stampa straniera come fonte attendibile, specie nelle proteste di piazza scoppiate tra il 2017 e il 2018. L’account del giornalista fondato nel 2015 è stato sospeso nel 2018 e poi riaperto, subito dopo, con un altro account. Il suo lavoro online ha contribuito a fomentare le proteste economiche a livello nazionale iniziate alla fine di dicembre del 2017 e continuate fino al 2018 e che hanno rappresentato la più grande sfida contro il governo iraniano, dopo le proteste del “Movimento dell’onda Verde” del 2009 e che hanno posto le basi per ulteriori tumulti di massa nel novembre dello scorso anno. Durante le proteste del 2017 in Iran sarebbero state arrestate più di 5.000 persone e uccise circa 25.

 

Il canale “Amad News” aveva diffuso le proteste iniziate nella città di Mashhad, città santa dello sciismo nel nord-est dell’Iran, per manifestare contro l’aumento del prezzo del pane, che presto si sono trasformate in contestazioni contro il regime degli Ayatollah e contro la politica economica di Hassan Rouhani, che non ha saputo risolvere i problemi ereditati dal suo predecessore, l’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad, quali disoccupazione, inflazione e crisi dei mercati. Rouhani ha disatteso le promesse elettorali riguardo l’apertura sociale e politica del paese e prima di tutto le speranze del popolo iraniano di un miglioramento delle loro condizioni generali di vita soprattutto dopo l’accordo con l’allora presidente USA Obama. Dopo la fine delle sanzioni internazionali, sono venuti a galla alcuni problemi che affliggevano il Paese da tempo, come corruzione e clientelismo, che hanno spaventato gli investitori stranieri. Gli slogan “Morte a Rouhani”, “Morte al dittatore”, “Ladri” quest’ultima con riferimento ai funzionari pubblici, sono stati affiancati da invettive contro il regime religioso inneggiando a frasi quali “morte a Khamenei” (la guida spirituale della Repubblica islamica). Alla protesta hanno partecipato anche intellettuali e borghesi illuminati che hanno contestato al presidente Rouhani di non aver realizzato il suo programma sui diritti civili, politici e umani. Zam ha svolto un ruolo fondamentale nelle proteste iraniane del 2017: ha criticato il regime, condiviso sul suo canale Telegram alcuni video che hanno mostrato la protesta che ha sfidato il regime anche se ha negato ogni incitazione alla violenza fisica, affermando che la missione del canale era quella di “diffondere consapevolezza e cercare giustizia”.

Zam era fuggito dall’Iran dopo le proteste del 2009, (era stato arrestato e detenuto in prigione per alcune settimane per aver contestato il regime dopo le elezioni presidenziali del 2009), approdando prima in Malesia e poi in Francia, dove, dopo un periodo da rifugiato, in cui era stato messo sotto protezione dal governo di Parigi. Il 14 ottobre 2019, le Guardie rivoluzionarie iraniane annunciano di aver attirato Zam in Iran e di averlo arrestato. Secondo altre fonti, invece, Zam sarebbe stato arrestato in Iraq; infatti sarebbe stato attirato in Iraq dal suo esilio in Francia, per incontrare il grande ayatollah Al Sistani nella speranza di assicurarsi il suo sostegno, con la promessa di fondi per finanziare un canale online. Era una trappola. Zam era una minaccia, dava fastidio e come tale doveva essere soppresso.

Zam non era un “pericoloso ateo” (che per un governo teocratico dovrebbe essere il peggior nemico) era il figlio di Mohammad-Ali Zam, un religioso sciita riformista che aveva ricoperto incarichi di governo negli anni ’80 e ’90. Il padre, che ha incontrato Zam per l’ultima volta alla vigilia dell’esecuzione, avrebbe riferito che gli era stato chiesto di non rivelargli che la sentenza era stata confermata e che nessuno ha informato né lui, né Zam che la condanna a morte sarebbe stata eseguita il giorno dopo. Neanche gli è stata data la possibilità di salutare i propri cari o di scrivere le “ultime lettere”. In questi giorni è stato postato su Twitter un video che ritrae Zam con la figlia. Il giornalista è morto anche per difendere la sua bambina, per regalarle quella libertà che molti non hanno e senza una vera rivoluzione culturale, non conosceranno mai.

Le reazioni di sdegno per l’esecuzione sono state immediate, tra le quali quella della Francia, che ha usato parole forti parlando di “atto barbaro e inaccettabile”. La Francia e molti paesi europei, tra i quali l’Italia, hanno deciso di boicottare un forum economico con l’Iran che avrebbe dovuto svolgersi il 15 dicembre e che alla fine è stato annullato. Poca roba, soprattutto per un paese come l’Iran che non ha mai usato la mano leggera contro gli oppositori.

 Tra realtà e fake news

E’ in pericolo la libertà di obiettare, criticare, esprimersi. E’ in pericolo, non quando un branco di analfabeti funzionali sotto lo scudo novax scrivono (fin troppo liberamente) panzane, dimostrate dalla scienza, essere false, è in pericolo perché le notizie vere, quelle del giornalismo d’inchiesta e delle informazioni verificate e verificabili sono osteggiate da querele, interpellanze parlamentari, violenze.

Mentre nel mondo ci sono giornalisti in paesi a rischio che si battono con la vita (o con i loro beni) per far vedere al mondo la realtà, per questi, le idee, gli ideali, la lotta per la libertà di informazione non smetterà mai di esistere, perché se un giornalista cade ce ne saranno tanti altri che raccoglieranno il suo testimone, che si immoleranno, difenderanno la libertà di opinione a tutti i costi, anche a costo della loro stessa vita, perché dal diritto di informazione si diramano tutti gli altri diritti della persona.

In Italia il rischio della vita è piuttosto basso (che non vuol dire assente), ma i veri problemi sono per quei giornalisti sottopagati, costretti a scrivere quello che l’editore desidera e sempre all’erta per evitare querele che, seppur temerarie, fanno tremare le vene nei polsi. Poi abbiamo giornalisti raccomandati (è curioso quanti figli di giornalisti lavorino in redazioni importanti, per non parlare di amici e amanti dei potenti di turno), ignoranti (quelli che non sanno la differenza tra un colpevole ed un indagato), poco (o troppo) credibili perché di parte (tradizionalmente a sinistra secondo il Worlds of Journalism Study pubblicato da Columbia University Press, 2019) e pseudogiornalisti che, in nome della libertà d’opinione, manipolano la realtà e inventano bufale.

 

Se per i giornalisti in paesi a rischio in cui è importante scuotere le coscienze e fare che la gente partecipi della democrazia attraverso la difesa della libertà di opinione e del diritto all’informazione, limitata da regimi sanguinari, vale quanto diceva il  Mahatma Gandhi: “Un uomo può uccidere un fiore, due fiori, tre… ma non può contenere la primavera”; per i fatti di casa nostra, invece, vale l’opposto: speriamo che questa primavera non porti troppi allergeni.

 

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