La violenza degli Operatori Socio Sanitari

Evoluzione o involuzione della professione?

La violenza è tristemente nota e frequente nell’ambiente sanitario. L’opinione pubblica, ovviamente inorridisce leggendo pagine e pagine di articoli contenenti gli orrori subiti da disabili ed anziani ad opera degli operatori sanitari. Indubbiamente sono episodi moralmente deplorevoli, ma ciò che la maggioranza delle persone ignora è che, al di là di qualche violento represso che ha deciso di lavorare come Operatore Socio Sanitario e sfoga la sua frustrazione verso gli indifesi, il processo socio-psicologico che porta al verificarsi di tali episodi, è spesso correlato alla disfunzionalità dei rapporti e del luogo di lavoro.

Le condizioni di lavoro

In Italia, pur essendo presente una grande fetta di strutture e presidi ospedalieri pubblici, ci troviamo in presenza di una moltitudine di strutture sanitarie e assistenziali private-convenzionate o totalmente private. In queste strutture, salvo rarissime eccezioni, le condizioni di lavoro degli operatori sono pressoché indecenti. Turni di lavoro serrati, carico di lavoro insostenibile e mansioni degradanti portano, nel medio-lungo periodo, gli operatori, soprattutto l’Operatore Socio Sanitario, alla frustrazione professionale totale. In molte case di riposo gli OSS sono costretti a mansioni che non fanno parte della loro formazione professionale, sono trattati come sguatteri e pagati meno di una donna delle pulizie. Nella maggior parte delle RSA fanno i turni di notte, si occupano della terapia farmacologica senza alcuna assistenza o supervisione infermieristica e devono controllare e assistere anche più di trenta pazienti da soli. Chi non si adegua viene bollato come “scansafatiche”, sanzionato e licenziato. Tutte queste situazioni portano, nel lungo periodo, ad un esaurimento di risorse psicofisiche. Con “l’avvento” dell’epidemia da Covid-19 il clima diventa ancora più pesante. La mancanza di DPI adeguati e la paura del contagio portano lo stress psicologico a livelli pericolosamente drammatici.  Il ruolo di operatore socio sanitario, al contrario di quanto si possa pensare, non è facile da svolgere. Spesso gli OSS sono visti e trattati come factotum nei reparti, a volte sostituiscono (illegittimamente) gli infermieri, a volte sono costretti a compiti degradanti e umilianti rispetto ad una preparazione che non è infermieristica ma nemmeno da cuoco della mensa. Questo stato emotivo, unito allo stress e al carico di lavoro, può sfociare in comportamenti assolutamente inidonei.

Criteri di ricovero

Il problema dei ricoveri è infelicemente noto per quanto riguarda l’inadeguatezza del binomio “appropriatezza clinica – appropriatezza organizzativa”. Troppo spesso in alcuni  reparti di alcune RSA, ci si trova ad occuparsi di pazienti che necessiterebbero di strutture sanitarie ad alta specializzazione e che invece sono “abbandonati” ad un’assistenza inadeguata. La presenza di pazienti “critici” porta difficoltà nell’organizzazione del reparto, considerando la scarsità di risorse umane e strumentali.§
Uno strumento utile ed efficace per valutare la criticità del paziente è la scala di MEWS (Modified Early Warning Score) con cui, attraverso l’analisi dei parametri vitali e dello stato di veglia, viene classificato in: Basso/Stabile (score 0-2), Medio/Instabile (score 3-4), Alto Rischio/Critico (score 5). Strettamente connesso alla criticità del paziente è il livello di complessità assistenziale: tale classificazione è determinabile attraverso l’uso IDA (Indice di dipendenza assistenziale): determina l’impegno assistenziale, su di una serie di variabili di dipendenza,  determinate da un punteggio in grado di valutare la complessità attraverso l’impegno del professionista, in base ad un cut-off che individua i pazienti ad alta complessità assistenziale se rientrano nel punteggio da 7 a 11, a media complessità da 12 a 19, a bassa complessità se, invece, il punteggio è compreso tra 20 e 28. Sulla base di tali valutazioni si dovrebbero attuare eventuali integrazioni di personale e strumentali atte a garantire un’adeguata qualità assistenziale globale, finalizzata al recupero delle capacità residue del singolo paziente. Questo non succede e tutto ricade sulle spalle dell’OSS che si deve occupare di pazienti ad alta complessità che andrebbero trattati con strumenti idonei ed in più persone, mentre, invece, sono affidati allo stesso personale che dovrebbe avere in carico pazienti a bassa complessità e che ha a disposizione strumenti assolutamente inadeguati.

Il processo gestionale

L’ambiente sanitario è diverso da tutti gli altri ambienti lavorativi. La pressione che subisce ogni giorno un operatore sanitario è notevole, il forte senso di responsabilità verso il paziente a volte opprime e il senso del dovere nei confronti del reparto e dei colleghi diventa “la goccia che fa traboccare il vaso”. Scattano dei meccanismi di difesa che alla fine, vanno a detrimento dell’assistenza prestata agli ospiti.
Spesso, per chi gestisce una RSA, un operatore efficiente  è colui che “riesce a finire il giro letti in un’ora e che riesce a far “star buoni” i pazienti”. In certi casi la velocità è inversamente proporzionale all’accuratezza, così le pieghe dei letti diventano piaghe, il tono della voce si alza e la movimentazione del paziente non è più dolce e rispettosa ma diventa meccanica e nervosa.
Assecondare chi pretende solo che “si finisca il giro e che i pazienti siano sistemati”, porta alcuni operatori meno preparati (meno empatici e poco adatti al lavoro) a percorrere la strada più facile e a commettere atti riprovevoli e crudeli pur di raggiungere l’obiettivo e risultare efficiente.
Atteggiamenti violenti e/o autoritari possono essere frutto del ruolo di caregiver o indotti dai colleghi, che spesso insegnano pessime maniere ai nuovi arrivati. Tutto ciò accade, principalmente, in strutture dove si lavora perennemente sotto organico, con la complicità evidente di infermieri e medici totalmente asservita alla logica del profitto aziendale e in assenza di sorveglianza da parte “dell’autorità competente”.

Conclusioni

Ciò che è chiaro a questo punto è che c’è un forte bisogno di strumenti che possano arginare e prevenire il fenomeno della violenza negli ambienti sanitari. La vigilanza da parte delle autorità competenti che vada a verificare se la degenza di pazienti ad alta complessità sia adeguata alle strutture sarebbe un inizio, l’ausilio di telecamere di sorveglianza sarebbe usa sicurezza. Il vero strumento di prevenzione sarebbe, una adeguata selezione del personale con corsi più selettivi (ad oggi il numero dei bocciati ai corsi OSS è risibile), test psicologici pre-assuntivi ed un adeguato sostegno per gli operatori sanitari volto al raggiungimento di un ambiente di lavoro costruttivo, stimolante e salubre.

di Maria Giovanna Matteis – Operatore Socio Sanitario

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