Due atleti? Due guerrieri? Oppure due barbuti eroi figli di Zeus o di Apollo? O sono Castore e Polluce,
i mitologici gemelli figli di Giove e di Leda?
O raffigurano Armodio e Aristogitone, personaggi realmente vissuti? Più semplicemente, potrebbero essere dei guerrieri originariamente armati di lancia
e scudo, immobili nel loro fiero aspetto, sguardo orgoglioso e profilo greco.
Le due statue in bronzo, alte circa due metri e distinte con le lettere “A” e “B” sono oggi custodite nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. La statua “B”, ha un occhio mancante, è priva di scudo, di lancia e dell'elmo che portava; i capezzoli e le labbra sono in rame come nella statua “A”; l'occhio rimasto è in calcare; il braccio destro non è quello originale ma è stato attaccato in epoca successiva. Pure la statua “A” è mancante di lancia e scudo e neppure aveva l'elmo; i suoi occhi sono in avorio e le ciglia in argento.
Le varie ipotesi su chi fossero i personaggi reali cui erano ispirati i due bronzi son fiorite fin dal 1972, quando il giovane subacqueo Stefano Mariottini li scoprì sottacqua, alla profondità di pochi metri, distanti alcune centinaia di metri al largo di Marina di Riace. Nelle sembianze, le due figure appaiono come personaggi tra l'umano ed il divino, tra la realtà e il mito, e sembrano esprimere sia il sentimento eroico che la bellezza greca, con una compostezza classica e una vitalità dirompente. Le armoniche ed esaltanti forme della bellezza rarefatta e ideale, sono il valore principe cui si ispirava l'antica concezione estetica; al contempo, però, le due figure si legano al realismo più estremo, dotate come sono di ogni perfetto particolare anatomico, minuziosamente studiato.
Ciascuna porzione delle due statue assume - sottolineano gli studiosi - una sua congrua collocazione nell’equilibrio globale dell’opera, ogni particolare è accordato con l’economia dell’insieme e i movimenti degli arti, del tronco e della testa, si armonizzano in una sincronia perfetta. Una delle caratteristiche fondamentali dell’arte greca era infatti la tàxis, il principio che sanciva la subordinazione delle singole parti alla unità compiuta e inseparabile dell’opera. Un’altra era il kosmos, che stava a indicare la bellezza quale frutto del razionale ordinamento spaziale nella visione figurativa.
Eleganti sagome ricche di vitalità, la fattura di questi bronzi è di gusto raffinato e ambedue possono essere collocati in uno dei periodi più floridi della civiltà greca e della cultura dell’intera umanità: epoca in cui l’arte fiorì in forme estremamente evolute, mentre creatività e genio si spingevano a cercare i connotati dell’armonia e della libertà. Queste statue sono perfette. Ma chi ne può essere stato l’autore? Fidia o forse Policleto o Mirone o un anonimo autore nella Magna Grecia? La diatriba delle ipotesi - in assenza di testimonianze e documentazioni - lascia nel dubbio. Nessuna certezza, inoltre, su chi sia stato l’artefice di questi capolavori: certamente un abile bronzista, artista sensibile, quasi certamente vissuto nel V° secolo a.C.
Una ipotesi su questo enigma sembrerebbe comunque trovare una risposta convincente grazie agli studi di Paolo Moreno, docente di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana, all’università di Roma Tre, e diffusi nel mondo da Riccardo Tonani.
Secondo il professore, il bronzo “A” (conosciuto come “il giovane”), potrebbe rappresentare Tideo, un feroce eroe proveniente dall’Etolia, figlio del dio Ares (o del re Eneo) e protetto di Atena. Il bronzo “B” (conosciuto come “il vecchio”), potrebbe invece raffigurare Anfiarao, un profeta guerriero. Entrambi parteciparono alla mitica spedizione della città di Argo contro Tebe, e Anfiarao aveva persino profetizzato la propria morte sotto le mura di Tebe con la disastrosa conclusione dell’avventura.
Oltre ad aver identificato i due personaggi, il professor Moreno ha anche indicato i possibili artefici delle statue con una sua ipotesi sulla collocazione originaria dei due pezzi. Il primo passo di questa tesi - spiega il docente universitario - è legato all’identificazione degli artisti tramite l’analisi dei materiali residui dal restauro che fu effettuato nel 1975 dal Centro specialistico della Soprintendenza Archeologica della Toscana.
Le statue, infatti, erano piene della cosiddetta ‘terra di fusione’ (formata da argilla e da peli animali), ancora presente quando furono scoperte in mare e che, impregnata da secoli di salsedine, le stava divorando dall’interno. L’operazione di svuotamento è stata complessa e delicata: sostenuta da sofisticate tecnologie, gli specialisti dell’Istituto del Restauro di Firenze, hanno asportato i depositi accumulati nei due millenni filmando l’intero processo ed effettuando un’accurata pulizia delle pareti interne dei bronzi. Per il microscavo sono stati impiegati ablatori a ultrasuoni (simili a quelli usati in odontoiatria) e il materiale è stato estratto prelevandolo da fori nei piedi delle statue usando pinze flessibili e spazzole rotanti, controllate da microtelecamere a fibre ottiche che inviavano su un monitor immagini ingrandite. Da ognuna delle statue sono stati estratti 60 Kg di ‘terre’ a loro volta suddivise in 1200 unità di prelievo. Ottanta sezioni tomografiche hanno delineato, con intervalli di 5-10 cm, l’intero assetto stratigrafico del materiale mentre 1400 fotografie digitali con relative didascalie hanno documentato la progressione del lavoro di asporto. Il microscavo ha avuto il supporto di una équipe di 5 tecnici che, in due anni, hanno anche realizzato una serie di filmati per circa 80 ore di proiezione.
Analizzando quella cosiddetta ‘terra’ asportata, ha aggiunto il professore, si è scoperto che quella del bronzo “B” proveniva dall’Atene di 2500 anni fa, mentre quella del bronzo “A” apparteneva alla pianura dove sorgeva la città di Argo, più o meno nello stesso periodo. Soprattutto, si è pure capito che le statue furono fabbricate con il metodo della fusione diretta, seppur poco usato perché molto critico in quanto non consentiva errori quando si versava il bronzo fuso mentre il modello originale veniva perduto per sempre.
Una antica “guida turistica”
Ai risultati della sua ricerca, Paolo Moreno ha unito lo studio di documenti storici. Come quelli lasciati dal greco Pausania che aveva redatto tra il 160 e il 177 d. C. una vera e propria “guida turistica” dei luoghi e monumenti della Grecia. In particolare, Pausania scrisse di aver visto nella piazza principale di Argo un monumento ai “Sette a Tebe” (alcuni eroi che fallirono nell’impresa di conquistare la città) e ai loro figli (gli Epigoni) che li riscattarono ripetendo l’impresa con successo. Il gruppo di Argo comprendeva dunque i due bronzi di Riace e altre statue di eroi, una quindicina circa, tutte provviste di elmi, lance, scudi e spade. Una conferma nella posizione delle braccia, e anche nel ritrovamento successivo sui fondali marini presso Riace, del bracciale dello scudo di un guerriero, sempre di bronzo.
La provenienza geografica e la tecnica usata hanno suggerito al professor Moreno che l’autore del “giovane” possa essere stato Agelada, uno scultore di Argo che, a metà del V secolo a. C., lavorava nel santuario greco di Delfi e nel Peloponneso. Infatti Tideo assomiglia moltissimo alle decorazioni del tempio di Zeus a Olimpia. Quanto alla statua del “vecchio”, i risultati dell’analisi hanno confermato l’ipotesi dell’archeologo greco Geòrghios Dontàs per la quale a scolpirlo fu Alcamene, nato sull’isola di Lemno, che pare avesse ricevuto la cittadinanza ateniese per i suoi meriti d’artista.
Miti e misteri
Grazie a un’attenta analisi delle statue si sono potuti accertare anche altri dettagli, alcuni dei quali sorprendenti. Per esempio che le statue erano abbellite da elementi cromatici: il rosso del rame evidenziava i capezzoli e le labbra mentre gli occhi erano pietre colorate, i denti d’argento. Quest’ultimo particolare, finora unico esempio nella statuaria classica, continua il professor Moreno, enfatizza bene l’espressione di Tideo, che non è affatto sorridente come sembra. Il suo è invece un ghigno satanico e bestiale, simbolo della ferocia del guerriero capace di fermarsi a divorare il cervello del nemico tebano Melanippo: un orrendo atto di antropofagia che costò all’eroe l’immortalità promessagli da Atena. Un’altra tragica vicenda sembra emergere dall’espressione angosciata del bronzo “B”, Anfiarao, il guerriero-profeta, che tradito dalla moglie Erifile, era stato costretto a partire per la guerra pur nella nefasta previsione della propria morte. Secondo il professor Moreno, il capo di Anfiarao era cinto da una corona di alloro, simbolo di profeta: l’indizio decisivo è legato alla presenza di un foro sulla nuca, espediente spesso usato per unire alla statua gli ‘accessori’ necessari.
Naufragi e misteri
Resta un ultimo enigma sui bronzi: come sono finiti sul fondale marino lungo la costa ionica della Calabria? La disamina delle ipotesi è articolata: forse erano opere provenienti dalla Grecia o forse da qualche città della Magna Grecia, ed erano su una imbarcazione naufragata dinanzi a Riace, il paese calabro che sorge su una collina prospiciente la riviera ionica. Oggi la piccola cittadina, ormai famosa nel mondo, è immersa tra uliveti, sentieri di ginestra e grovigli i fichi d’india. I suoi antichi borghi medievali sono brulicanti di vita e botteghe artigiane, un insieme di tetti, finestre addossati gli uni agli altri, intrecciati da vicoli e stradine strette
Sulla lunga permanenza in mare delle due statue, alcuni studiosi intendono avvalorare l’ipotesi di un inabissamento volontario: le statue sarebbero state immerse per essere protette da azioni vandaliche di pirati. Fra le ipotesi più accreditate i due bronzi potrebbero essere stati abbandonati dall’equipaggio di una nave in difficoltà per una tempesta, come suggerisce il professor Moreno e, nelle campagne di rilevamento che seguirono si ritrovò pure un pezzo di chiglia di nave romana di età imperiale. Le due statue, però, sono state ritrovate vicine e affiancate, cosa impossibile anche se fossero state gettate contemporaneamente. Il ritrovamento sembra invece tipico di materiale inabissatosi per il naufragio della nave che si è poi disfatta nei secoli per le forti correnti e l’acqua marina.
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