Intervista all’Epidemiologo Clinico Dr. Claudio D’Anna
Del covid-19 tanto si è detto, e si continua a dire, e tanto si è ascoltato ma la verità è che ancora oggi, a oltre tre mesi dal suo “debutto in società” non si conoscono la maggior parte degli aspetti che lo riguardano. Cercare di fare chiarezza su una forma così particolare di epidemia e così ancora tanto ignota è davvero difficile, tanto come lo è stato per chi è stato chiamato in prima persona a fargli fronte e si è trovato per lo più impreparato. Di contro, da quando è iniziata l’epidemia, circolano un po’ ovunque le più svariate congetture circa la genesi del covid-19. Chi la trova in una creazione di laboratorio sfuggita di mano, chi in un’arma batteriologica studiata a tavolino e volutamente diffusa, chi invece come conseguenza dell’inquinamento elettromagnetico e chi, addirittura, come l’avverarsi di una profezia. Ad oggi però le domande che rimangono ancora senza risposta sono tante, ed è proprio questo non sapere che genera ansia e confusione.
Abbiamo intervistato il Dr. Claudio D’anna, epidemiologo clinico di malattie infettive, per venti anni responsabile tecnico delle attività vaccinali della ASL RM H, dieci anni Direttore distretto di Ciampino e due anni Direttore Sanitario Ospedali di Marino e Frascati. Direttore Sanitario Clinica Fenice Parioli.
Dr. D’Anna Il covid 19 è un virus di origine naturale?
I coronavirus sono una famiglia di virus respiratori ad RNA, ben conosciuti, in quanto responsabili, tra gli altri, del comune raffreddore. Alcuni tipi di coronavirus, tuttavia, possono dare patologie più gravi, a carico dell’ apparato respiratorio, quali la SARS (sindrome respiratoria acuta grave), o la MERS (sindrome respiratoria medio-orientale).Tali virus riconoscono il loro serbatoio in molte specie animali, ma come spesso avviene per molti di loro, vedi i virus influenzali, in talune condizioni possono evolversi ed infettare l’uomo, compiendo quello che gli scienziati chiamano il “salto di specie”, per poi diffondersi nella popolazione
Il CoVID 19 appartiene a questa famiglia di virus ed aveva, probabilmente, nel pipistrello e nel pangolino, il suo serbatoio naturale. Il CoVID 19 è quindi un nuovo ceppo di virus naturale che ha compiuto il salto di specie, acquisendo la caratteristica genetica di infettare l’uomo e di trasmettersi da uomo a uomo. Il problema è che, trattandosi di un “virus nuovo”, che, quindi, non ha mai circolato tra le popolazioni, può infettare chiunque entri in contatto con esso.
Quindi è da smentire l’ipotesi che sia stato creato in laboratorio?
Si è da smentire il fatto che il coronavirus sia stato creato in laboratorio, o che sia sfuggito da un laboratorio e che sarebbe quindi un prodotto di ingegneria genetica. Infatti uno studio condotto sul genoma del SARS-CoV-2, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, ha dimostrato, confrontando i genomi dei diversi ceppi di coronavirus, che il CoViD 19, si è selezionato per via naturale. Infatti la proteina Spike, che si trova sulla superficie virale, che gli consente di penetrare nelle cellule, si incastra perfettamente nel recettore cellulare Ace2, tramite un uncino chiamato Rbd che si è evoluto in maniera così efficace, da poter essere solo il frutto di un processo naturale. Se tale virus fosse stato prodotto in laboratorio, sarebbe stato costruito a partire da elementi virali noti per causare la malattia e non da una proteina della quale nessuno conosceva l’efficacia nel determinismo dell’infezione. Inoltre la frequenza genomica del nuovo coronavirus presenta delle differenze con quelle dei coronavirus noti, che sono uniformemente diffuse in tutto il genoma virale. Ora, se il nuovo virus fosse stato prodotto in laboratorio, avremmo una sostanziale identità di sequenza e troveremmo, qua e la, dei pezzetti di genoma completamente diversi, che corrisponderebbero a delle sequenze genetiche introdotte artificialmente. Ricordiamo che ogni volta che ci siamo trovati di fronte ad emergenze epidemiche “nuove” è sempre stata tirata in ballo la teoria del complotto del virus creato in laboratorio o sfuggito dai laboratori. Pensiamo all’HIV, o alla SARS o alla sindrome della mucca pazza. Se tale teoria fosse vera, come si spiegherebbero le spaventose epidemie di Spagnola del 1914 o di asiatica del 1956, periodi nei quali non esisteva certo l’ingegneria genetica, e che hanno fatto decine di milioni di vittime?
C’è una parte di persone naturalmente immuni al virus?
Trattandosi, come abbiamo detto, di un virus nuovo, tutti coloro che ne entrano a contatto possono essere contagiati e nessuno è naturalmente immune, perché nessuno ha incontrato precedentemente il virus.
Gli asintomatici hanno la stessa infettività dei sintomatici?
Gli asintomatici, come purtroppo abbiamo visto, possono essere infettanti, anche se probabilmente, emettono, tramite le goccioline di Flugge (bollicine di vapore acqueo in sospensione nell’aria n.d.r.), una carica virale inferiore rispetto ai sintomatici.
Perché i tempi per un vaccino sono così lunghi?
L’allestimento di un vaccino richiede sempre dei tempi più o meno lunghi, in quanto vanno considerati, oltre ai tempi necessari per la preparazione vera e propria del vaccino (attenuazione, inattivazione, predisposizione di componenti virali), anche i tempi di valutazione e di sperimentazione in termini di sicurezza e di efficacia del prodotto. Probabilmente occorrerà circa un anno per poter disporre di un vaccino anti CoVID19.
Quindi dobbiamo aspettarci un numero di morti ancora più elevato in Italia?
La mortalità da coronavirus, ossia il numero di decessi sul numero di contagiati in Italia è di circa il 6,8%, ben più alta del 3,4% stimata dall’OMS. Il dato di mortalità è certamente sovrastimato, in quanto il denominatore è costituito esclusivamente dai soggetti sintomatici ricoverati e non di tutti i contagiati, quindi anche degli asintomatici, sul cui numero nessuno ha certezza, ma che, se considerati, aumenterebbero di molto il denominatore, abbassando quindi il tasso di letalità. C’è poi da considerare che l’Italia ha la popolazione più anziana d’ Europa con circa il 23% della popolazione sopra i 65 anni; l’età media dei deceduti da coronavirus è di 81 anni e riguarda, in larga misura, pazienti con patologie concomitanti, tutto ciò senza considerare i bypass legati a problemi di notifiche.
Dr. D’Anna in questo periodo abbiamo assistito a diverse diatribe tra esperti che hanno generato spesso confusione, perché tante divergenze tra gli Infettivologi?
Le divergenze di parere degli esperti, purtroppo, sono una caratteristica non infrequente in situazioni di questo tipo, nelle quali ci si trova di fronte ad un microorganismo nuovo e quindi non vi sono lavori scientifici di riferimento, non ci sono esperienze di trattamenti “sul campo” e non ci sono dati confrontabili per la mancanza di studi ad hoc. Inoltre le analisi dei dati disponibili possono prestarsi a differenti valutazioni ed anche a diverse previsioni sull’andamento dell’epidemia.
Quali errori sono stati fatti secondo Lei nel contenimento della malattia?
L’errore fondamentale che è stato fatto nel contenimento dell’epidemia risiede nella sottovalutazione dell’evento epidemico nel suo complesso, sia per quanto riguardava la contagiosità del virus, sia rispetto alla sua aggressività, in termini di patogenicità e di mortalità.
Possiamo quindi concludere dicendo che ci troviamo a gestire un evento epidemico determinato da un virus nuovo, del quale ancora conosciamo molto poco e nei confronti del quale non abbiamo né un vaccino né un rimedio specifico. È chiaro che, in queste condizioni, l’unico sistema efficace per combattere la malattia, è quello di non contrarre il virus, attraverso l’isolamento dei malati, la quarantena dei contatti e la non esposizione di coloro che non l’hanno preso. Da qui il consiglio di stare a casa e di uscire solo per urgenti e comprovate esigenze, usando, in questi casi, le misure di barriera ed i comportamenti utili a prevenire il contagio. Deve essere chiaro che, con questo comportamento, non si combatte il virus, ma si evita solo che questo ci colpisca, pertanto dobbiamo essere consapevoli che il virus continuerà a circolare nella misura in cui troverà soggetti suscettibili che albergheranno il virus e continueranno a trasmetterlo ad altri, mantenendo così la catena biologica dell’infezione e la sopravvivenza dell’agente patogeno.
Da qui la necessità di continuare ad utilizzare tutte le misure di prevenzione atte ad evitare il contagio anche, quando la fase emergenziale sarà finita, con la diminuzione del numero dei contagi.
Non dobbiamo quindi pensare che la fase2 ci liberi definitivamente da questo nemico.
Dobbiamo invece preparaci a questa nuova fase con la stessa responsabilità, e forse anche maggiore per alcuni, che abbiamo fin qui avuto perché con la fine del lockdawn le occasioni di contatto aumenteranno e finché non ci sarà un vaccino non si potrà arrivare al contagio zero, diventa quindi fondamentale imparare a convivere almeno ancora un po’ con la consapevolezza che non possiamo abbassare la guardia.
Solo così si potrà evitare che la cosiddetta seconda ondata, che normalmente caratterizza gli eventi epidemici di questo tipo, abbia l’effetto devastante che ha avuto questa prima fase dell’epidemia.
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