”Sono venuto a stringere la mano ai nostri carabinieri, come è giusto faccia ogni comandante quando i suoi uomini, in condizioni di estrema difficoltà, operano con determinazione, coraggio e professionalità”.
Lo ha detto il Comandante generale dell'Arma, generale Luciano Gottardo, che ha visitato la sede del Nucleo Radiomobile di Roma
per complimentarsi con gli uomini che hanno preso parte alla cattura
di Luciano Liboni. “Ricordo - ha sottolineato il Generale - che nella
circostanza non c'è stato spargimento di sangue di civili"
Il Comandante, che ha anche espresso il suo rammarico per la tragica conclusione della tormentata esistenza di Liboni, ha concluso
ricordando che il latitante ha sparato per primo, provocando
la reazione a fuoco dei militari.
è finita nel sangue la drammatica fuga di Luciano Liboni, un uomo che non ha mai esitato a sparare anche in mezzo alla folla, un uomo su cui pendeva l’accusa di avere ucciso a freddo un giovane carabiniere. Le ultime fasi della vicenda sono tutte legate alle fiammate di un micidiale e luccicante revolver a tamburo da western che è stata quasi una sorta di firma del bandito. Le revolverate si sono riversate contro poliziotti, carabinieri, vigili urbani in mezzo alla gente terrorizzata, cittadini inermi che stentavano credere a ciò che vedevano. Nell’ultima settimana di luglio tutte le forze dell’ordine della capitale, coordinate dalle diverse sale operative, hanno attivato una vera e propria caccia a quest’uomo che forse stava disperatamente tentando di espatriare in un lontano oriente.
All’avvio della caccia, l’ipotesi che Liboni avesse cinicamente freddato il 22 luglio a Pereto di Sant’Agata Feltria, in provincia di Pesaro, un giovane appuntato dei carabinieri, Alessandro Giorgioni. Il militare assassinato, aveva 36 anni ed era padre di un bimbo di cinque; si trovava in un piccolo bar-ristorante del paese quando incrociò il suo killer che lo insospettì per l’atteggiamento, forse da certe ferite che aveva al volto o dalla mano destra fasciata: gli chiese i documenti. Lo sconosciuto disse al militare che li aveva in una borsa sulla moto parcheggiata fuori da quel locale dove il destino li aveva fatti incrociare. Appena uscito, però, due colpi d’arma da fuoco a distanza ravvicinata e il carabiniere muore sul colpo.
Immediata la fuga in moto, forse con una Yamaha 600 che era stata rubata il 12 luglio a Terni. Una fuga che è passata per l’area di servizio di Canili di Verghereto, nel cesenate sulla E 45, circa 30 km a sud di Pereto, poi in direzione di Perugia e quindi lungo la Flaminia fino alle porte di Roma.
Luciano Liboni, nato 47 anni fa a Montefalco (Foligno), non era nuovo alle cronache giudiziarie: ladro e pregiudicato, sospettato di furto di opere d’arte negli anni ‘90 era latitante dal 2002, con l’accusa di aver sparò contro un benzinaio di Todi. Un vero ‘lupo solitario’ degno del più acuto romanzo giallo, come lo hanno definito in molti. Un carattere spigoloso, il suo, pungente che lo aveva fatto allontanare da tutti, persino dalla famiglia.“Lupo solitario” era sempre riuscito a sfuggire a più di una cattura anche quando nel marzo dello stesso 2002, rimasto bloccato nel traffico, avrebbe usato sempre la stessa pistola contro dei militari a un posto di blocco.
La grande caccia a Roma
Liboni avrebbe in realtà cominciato questo suo luglio di fuoco a Roma proprio ai primi del mese - secondo le ipotesi sulla ricostruzione di quel periodo, sparando contro un carabiniere che lo aveva fermato per chiedergli i documenti in una zona tra Guidonia e Settecamini. Per settimane la caccia nella capitale è stata serrata, senza risparmio di uomini e mezzi, e senza mai tirare il fiato. Il procuratore aggiunto di Roma Italo Ormanni e il pm Vittoria Bonfanti lo avevano già iscritto sul registro degli indagati con le ipotesi di reato di tentato omicidio, porto abusivo di armi e sequestro di persona.
Per lungo tempo negli uffici degli investigatori dei carabinieri c’è stata una enorme carta geografica di Roma e provincia: senza sosta, per diverse settimane si è cercato di capire dove e come il ‘lupo’ si potesse nascondere. Quella carta è stata simile a una grande scacchiera sulla quale si è giocata la partita tra il ‘lupo’ e le forze dell’ordine.
La carta geografica veniva sempre aggiornata con segnalini colorati che indicavano i punti dove, anche negli ultimi giorni prima della cattura, si presumeva Liboni fosse passato. Si faceva attenzione anche alla più labile traccia. Gli investigatori avevano anche avuto concreti risultati: nei pressi del teatro dell’Opera all’Esquilino fu trovata una potente moto, una ‘Yamaha 600’ bianca e azzurra col casco, un sacco a pelo e dei vestiti che si suppone siano appartenuti al ricercato.
Finalmente, il 24 luglio, in una centralissima piazza antistante la stazione Termini a Roma, nei pressi di un mercatino di libri usati in via delle Terme di Diocleziano, un uomo molto somigliante alle segnaletiche in mano a tutte le forze dell’ordine, viene intercettato da tre poliziotti in borghese del Commissa-riato Viminale. Lì nei pressi, un piccolo e oscuro giardinetto, anche fortemente equivoco, frequentato da vagabondi, da alcolizzati, luogo ideale per mimetizzarsi tra i viaggiatori e i disperati che affollano la zona.
Quando gli agenti gli intimano di fermarsi, neanche una parola di risposta ai poliziotti, ma ruggisce una micidiale pistola: l’uomo la teneva già in mano, coperta da un giornale piegato. Con l’arma spianata, il pregiudicato si dà alla fuga fra i banchi. Nasce un finimondo: i colpi di revolver sono mirati contro i poliziotti in borghese e questi rispondono con colpi in aria mentre il pregiudicato fugge verso via Cavour. I passanti terrorizzati si gettano a terra. Alcuni colpi di pistola si conficcano nelle serrande metalliche dei box del mercatino.
I tre uomini della polizia desistono dal conflitto a fuoco per timore di coinvolgere i passanti. L’uomo, con la pistola in mano, approfitta del caos, svicola fra cittadini terrorizzati negli stretti varchi del mercatino dei libri e poi, come un fulmine, blocca un’auto di passaggio con padre e due figlie a bordo. Altri secondi di terrore e il conducente obbedisce all’intimazione del bandito e guida per allontanarsi velocemente. Una volata verso la zona di Piazza Vittorio ma, giunto in via Principe Amedeo, l’uomo armato salta fuori dall’auto dall’auto e si dà a un’altra fuga a piedi per imbucarsi poi su una vettura della linea A della metropolitana. Riesce così a far perdere le tracce e a volatilizzarsi di nuovo.
Da quel giorno, stanare l’uomo braccato diventa una caccia difficile proprio perché si trattava di un randagio, un uomo abituato a muoversi da solo, quasi senza contatti con la malavita che non voleva correre rischi supplementari. Un ‘lupo’ che non usava mai alcun telefonino, controcorrente rispetto a chi, percorrendo la via del crimine, è alla costante ricerca di una sempre più moderna tecnologia.
La dinamica della cattura
Alcuni giorni dopo la sparatoria alla stazione alle 11,25 del 31 luglio, nella zona di via Petroselli fra l’Anagrafe e il Circo Massimo, ancora in pieno centro storico, una vigilessa in servizio urbano riceve da una passante una segnalazione sulla presenza di Liboni. La donna che aveva dato l’informazione, successivamente identificata in Luciana Lena, 56 anni, una operatrice nel volontariato che vive a Cavriago in provincia di Reggio Emilia, si trovava a Roma per motivi professionali (doveva accompagnare all’aeroporto un gruppo di studenti in partenza per la Finlandia per un’Associazione Onlus) e la sera stessa voleva assistere con il marito al concerto di Simon&Garfunkel.
“Stavo camminando fra via del Teatro Marcello e via di Monte Caprino in direzione di piazza Venezia quando mi sono imbattuta in quell’individuo che poteva assomigliare alle descrizioni di Liboni. Ho incrociato il suo sguardo mentre camminava in strada - racconterà successivamente la Lena agli investigatori - ma non ho avuto paura, anche quando mi è sembrato di capire che quell’uomo era proprio colui che tutti cercavano. Ho verificato tre cose: il neo, la bocca irregolare e il cerotto alle dita di una mano. Tutto corrispondeva a quanto letto sui giornali o visto in tv”. “Devo ringraziare il fatto di essere stata lucida - ha aggiunto - e a me non sembra di aver fatto molto, se non svolgere il dovere di un cittadino”.
La donna si è anche dichiarata stupita del fatto che nessuno prima di lei avesse riconosciuto Liboni, in quanto l’uomo girovagava senza un preciso obiettivo per le vie del centro come un normale turista. “Avendo avuto quindi una quasi certezza che fosse il pregiudicato, la cosa più opportuna che mi è sembrato di fare in quel momento è stata quella di passare l’informazione a chi più di me era qualificato e in grado di prendere una decisione”. La signora Lena si è quindi avvicinata al gabbiotto dei vigili e “così mi sono rivolta alla vigilessa che era di servizio. Solo più tardi - ha continuato la donna - quando mio marito mi ha raccontato per telefono che Liboni era stato ucciso in una sparatoria, ho realizzato quello che era successo circa un’ora prima. Mi sono tremate le gambe. Sono contenta comunque di aver potuto dare il mio contributo”.
La vigilessa che aveva ricevuto l’informazione avvisò immediatamente due suoi colleghi, anche loro in zona. I due vigili, motociclisti del I gruppo - Giorgio De Angelis e Ivan Bianco - si sono avvicinati con circospezione all’uomo indicato che non aveva occhiali nè barba ed era ben rasato: grazie alle segnaletiche che avevano a bordo delle moto, anche loro pensarono che si trattasse proprio del ricercato. A quel punto i due agenti della Municipale, anche se disarmati, si mettono a seguire a una certa distanza il latitante fino all’arrivo di una pattuglia di carabinieri motociclisti del Nucleo Radiomobile avvisati dalla sala operativa: il brigadiere Angelo Bellucci e l’appuntato Alessandro Palmas. Sono da poco passate le 11.35, il ‘lupo’ ha ormai raggiunto la zona di viale Aventino e i due militari quasi lo tallonano, dividendosi ai due lati della strada. Palmas in moto sul marciapiede, l’appuntato Bellucci lo affianca.
La fine alla caccia a Luciano Liboni l’hanno dunque scritta i carabinieri in un’azione fulminea durata un minuto e mezzo. È toccato proprio a loro catturarlo. Proprio a loro che su questa vicenda si erano dati un preciso dovere morale, quello di prendere l’uomo su cui pendeva l’accusa di aver ucciso a sangue freddo un loro giovane collega.
Il brigadiere Palmas si avvicina ulteriormente ed esclama ad alta voce: “Luciano, Luciano’’. Nessuna reazione, l’uomo continua a camminare senza voltarsi. Quando, fatto ancora qualche passo, si gira improvvisamente ed esplode alcuni colpi di pistola contro di chi lo seguiva. I colpi non vanno a segno, Bellucci butta la moto a terra per ripararsi mentre Palmas si allarga per aggirarlo ed esplode un colpo in aria per il timore di coinvolgere nella sparatoria dei passanti. Rapidissimo Liboni si getta su un chiosco di bibite e fette di cocomero dove in quel momento si trovano dei turisti: una famiglia francese, padre, madre e tre figli. Afferra la donna e la trascina via strattonandola per un braccio. La prende in ostaggio, minaccia di ucciderla spara altri due colpi contro i carabinieri. Forse si rende conto di avere in canna solo un altro proiettile e decide allora una mossa disperata sperando forse che, se avesse colpito uno dei due militari, l’altro si sarebbe fermato. Forse pensava che avrebbe così avuto qualche possibilità di fuga. Allunga quindi il braccio per prendere la mira contro Palmas ma è a quel punto che Bellucci ha l’intuizione di azionare la sirena dell’allarme ululante della motocicletta. Il diversivo funziona: Liboni, è sorpreso, forse pensa all’arrivo di altri carabinieri e getta in terra la donna in ostaggio. Sono frazioni di secondo decisive che consentono all’appuntato Palmas di passare dietro al chiosco e di lanciarsi contro di lui per immobilizzarlo sparando. Lo colpisce alla testa.
Liboni è ferito gravemente ma non si arrende, continua a divincolarsi, a cercare a tastoni la pistola che aveva perso e non smette di tirare calci neanche quando, opportunamente ammanettato, viene caricato sull’ambulanza che lo trasporterà all’ospedale San Giovanni dove arriva alle 12 in stato di coma profondo.
“Aveva gravi lesioni - ha poi detto ai giornalisti il professor Esposito che lo aveva preso in consegna - e uno shock emorragico causati dal colpo di arma da fuoco. L’abbiamo rianimato e, visto che le sue condizioni lo permettevano, lo abbiamo portato subito in sala operatoria per controllare le importanti emorragie presenti e trattare le gravi lesioni primarie. Dopo circa mezzora di intervento Liboni è però deceduto”. Il primario ha aggiunto che sul corpo erano presenti soltanto il foro d’entrata e quello d’uscita del proiettile che lo ha colpito.
Immediata l’autopsia effettuata presso l’Istituto di medicina legale dell’università La Sapienza di Roma. L'équipe di specialisti ha eseguito una serie di accertamenti per stabilire se il latitante umbro potesse aver fatto uso di droghe, alcool o altre sostanze nelle ore precedenti o nei giorni precedenti.
I testimoni: sette o otto spari e poi tutto è finito
La tragedia si è consumata in pochi istanti. “Ho sentito sette o otto colpi di arma da fuoco”, racconta l’addetto del chiosco attorno al quale si è consumata la sparatoria. Era lì a pochi metri, ma quando si è avvicinato per vedere e per capire cosa stesse succedendo. Liboni era già a terra, immobilizzato dai carabinieri. “Ho visto poi un gran numero di auto di carabinieri e polizia che arrivavano da in ogni direzione”.
Anche gli altri esercenti di negozi e bar in via dei Cerchi e in viale Aventino si sono avveduti della cattura solo quando hanno visto le auto delle forze dell’ordine sfrecciare in direzione del palazzo della Fao. Alla sparatoria hanno assistito anche dei passanti tra cui una donna che era appena scesa dalla metro alla fermata Circo Massimo. Ha raccontato di aver avvertito i colpi di pistola e ha detto: “Ho avuto paura e mi sono fermata rientrando nella metro. Quando ho sentito le sirene che suonavano ininterrottamente, mi sono rassicurata e sono uscita”.
“In galera non ci torno, piuttosto mi faccio ammazzare”.
“I carabinieri gli hanno intimato l’alt e Liboni ha esploso quattro colpi contro i nostri militari senza riuscire a colpirli”, ha poi spiegato il Comandante Provinciale dei carabinieri Umberto Pinotti sopraggiunto sul luogo della sparatoria. “Liboni si è poi gettato contro una famiglia di turisti che si trovava lì e ha puntato la pistola alla tempia della donna prendendola in ostaggio. è stato solo a quel punto che uno dei nostri carabinieri ha sparato”. Braccato dai due carabinieri motociclisti, mentre puntava l’arma contro la donna francese che teneva bloccata per un braccio, Liboni ha urlato “L’ammazzo, tanto sono morto”, ha ulteriormente raccontato ai giornalisti il capitano Pietro Di Miccoli, anche lui immediatamente intervenuto sul luogo della sparatoria.
Anche i turisti francesi hanno esposto ai carabinieri la dinamica dei fatti, “Sono stati portati nei nostri uffici - ha detto il maggiore Attilio Arricchito - padre, madre e i loro tre figli di 10, 12 e 17 anni: hanno confermato interamente le modalità dell’episodio che li ha visti vittime. Le due ragazzine sono ancora particolarmente colpite da quanto subito dalla madre 37ente presa in ostaggio con una pistola puntata alla testa”.
I vigili urbani
Quando i nostri due uomini lo hanno visto - racconteranno successivamente anche al I gruppo della Polizia Municipale nella loro prima ricostruzione della vicenda - Liboni stava passeggiando tranquillamente nei dintorni della fermata della metro Circo Massimo. Mancava qualche minuto a mezzogiorno. All'arrivo dei carabinieri che noi avevamo avvistato, vistosi scoperto, ha sparato contro i suoi inseguitori diversi colpi e alcuni sono stati anche indirizzati verso l’agente Bianco che, per fortuna, non è stato colpito.
Il Comune di Roma ha assegnato ai due vigili una medaglia d’oro.
La volontaria
Il Sindaco Walter Veltri la mattina successiva alla sparatoria ha parlato al telefono con la signora Luciana Lena per esprimerle il ringraziamento per il suo gesto. Ha anche concordato con la volontaria un incontro in Campidoglio per rinnovarle la riconoscenza della città. Anche il Prefetto di Roma, Michele Serra, ha espresso soddisfazione per la fiducia che la donna ha dimostrato verso le istituzioni, rendendo nota la propria identità.
La famiglia francese
Momenti di gloria anche per la famigliola francese in vacanza a Roma, dopo il terrore al Circo Massimo per la madre presa in ostaggio. “Cercavamo un po’ d’ombra al riparo del chiosco dei cocomeri e lì è anche arrivato quell’uomo in fuga”. Così hanno raccontato i cinque turisti di quei momenti drammatici. “Non abbiamo intenzione di interrompere le nostre vacanze - hanno proseguito - e le continueremo come avevamo progettato, cercando di dimenticare in fretta questa brutta storia”.
Il generale Umberto Pinotti, Comandante Provinciale dei carabinieri, ha comunicato che la famiglia francese nei giorni successivi sarebbe rimasta ospite del Comune e dei Carabinieri stessi. “Faremo in modo che prolunghino la vacanza - ha detto Pinotti - per consentire loro di ritrovare un po’ di serenità.” Il Comune ha infatti ‘adottato’ la famiglia di turisti che è rimasta per tutta la settimana ospite. La madre è stata premiata con la Medaglia del turismo. A consegnare il riconoscimento, il vicesindaco di Roma Maria Pia Garavaglia, che ha incontrato i cinque all’ingresso della Domus Aurea, prima della loro visita al museo. La medaglia è stata presa in consegna dal figlio più piccolo. La vicesindaco ha proposto loro Ostia Antica, il Giardino delle Rose e un tour in battello sul Tevere.
La latitanza a Roma
Con la cattura e la morte di Luciano Liboni, le indagini non si sono comunque fermate. Nei vertici che si sono intrecciati in Procura tra i carabinieri del Nucleo Operativo e il Procuratore aggiunto Italo Ormanni, è stata compiuta una serrata analisi del periodo di latitanza di quell’uomo che per 10 giorni aveva seminato il panico tra la gente. Gli inquirenti hanno delineato la strategia per individuare chi lo potrebbe avere eventualmente aiutato durante la latitanza. Le indagini finali sono partite dalle tracce lasciate dal ‘lupo’ mentre cadeva ferito: erano rimaste tutte lì, all’ombra del chiosco dei cocomeri, davanti alla spianata del Circo Massimo. Finita la fuga, si è dunque ripartiti dalle ultime tracce sul luogo in cui il ‘lupo’ è caduto, e da quelle che aveva addosso. Compreso lo sporco, forse terriccio o muschio che gli esperti dei Carabinieri gli hanno trovato sotto le piante dei piedi: come se proprio avesse camminato all’aperto senza scarpe. Oltre alla grande chiazza di sangue e allo zainetto, un paio di occhiali da sole, un bossolo e un proiettile. I cartellini con le lettere segnaletiche per le foto - dalla A alla K - avevano composto una sorta di puzzle nel quale cercare la soluzione dell’enigma. Perché la fine di un ‘killer’ non segna certo la fine di una storia, e dietro il tragico epilogo violento, restano i misteri degli ultimi giorni del latitante, come e dove s’è mosso mentre sapeva di essere braccato, chi l’ha aiutato.
Sembra che quel fatidico 31 luglio il latitante avesse appena incontrato, o si accingesse a farlo in quei minuti, una persona che gli avrebbe assicurato ancora protezione e immunità, favorendo la sua latitanza. Una persona che gravita nel mondo dell’emarginazione, dei barboni, dei mendicanti, di tutti coloro che ricorrono alle strutture caritatevoli per trovare un tetto, un posto per dormire, un pasto caldo, vestiti puliti.
Nello zainetto c’era anche una cartella clinica con l’esito positivo di un test di gravidanza, con la data dello scorso novembre. Non è confermato, ma potrebbe forse appartenere alla donna dello Sri Lanka, cui Liboni pare fosse legato. Accanto allo zainetto, a terra anche in revolver del pregiudicato, quello cromato che forse aveva già sparato nelle Marche e a Roma in via delle Terme di Diocleziano. L’arma è stata recuperata dai Carabinieri del Nucleo operativo assieme ad alcuni bossoli dei proiettili esplosi in via del Circo Massimo. Le perizie balistiche diranno se queste ipotesi sono state una realtà.
Altri elementi utili alle indagini potranno emergere dai nomi, dai numeri telefonici e da quant’altro risulterà da quei fogli che il pregiudicato aveva in una tasca del giubbotto senza maniche che indossava. Carta talmente intrisa di sangue che, per riuscire a leggerne il contenuto, è stata consegnata agli specialisti del reparto investigazioni scientifiche dell’Arma. Quello di cui al momento gli investigatori si mostrano certi è che nell’ultima settimana l’uomo non aveva mai abbandonato l’idea di allontanarsi e riprendere la fuga. Magari all’estero, come sembra testimoniare la carta stradale d’Europa che conservava nello zainetto insieme a uno stradario della capitale e un libretto con gli orari delle corriere. E ancora, un giornale di annunci economici, sui quali cercare qualche moto da rubare: Liboni, secondo le ipotesi nelle indagini, si presentava all’appuntamento, controllava che i documenti fossero a posto e quindi chiedeva di fare un giro di prova. Avuta la moto in mano, fuggiva a tutto gas.
Il comandante del Reparto Territoriale dei Carabinieri, il colonnello Salvatore Luongo, accennando a qualche particolare sulla ricerca del latitante, ha detto che il pregiudicato sapeva bene come muoversi nei luoghi affollati, e ha sottolineato che i controlli, mai cessati, procedevano a raggiera dal centro alla periferia. Ha anche rivelato che Liboni si era pure allontanato per alcuni giorni dalla città e vi era poi tornato. Questo fu uno dei dati più importanti emersi nel corso delle indagini e i carabinieri stavano restringendo sempre più il cerchio intorno al pregiudicato. Complessi però i tentativi degli investigatori di scardinare quella rete di protezione che il ‘lupo’ aveva costruito con determinazione e caparbietà, quasi presagisse che quella stessa rete sarebbe stata determinante nel momento in cui le cose per lui si fossero fatte più difficili.
Dopo la sparatoria fra i banchi del mercatino dei libri in Piazza della Repubblica, alcuni testimoni l’hanno visto a una fermata della metro mentre gli investigatori dell’Arma hanno cominciato le ricerche dagli informatori che hanno tra i girovaghi che “abitano” quei giardinetti di fronte alla stazione. Hanno trovato qualcuno in grado di dare indicazioni su Liboni che era conosciuto con altri nomi, tra cui quel Franco Franchini col quale s’era fatto curare all’ospedale di San Piero in Bagno, nelle Marche, il 21 luglio, dopo essere caduto dalla moto: frattura del setto nasale ed escoriazioni alla mano destra gli avevano diagnosticato, ma lui la mattina del 22 ha firmato e se n’è andato. La carta d’identità mostrata all’ospedale fa parte di un blocco di documenti in bianco rubati al Comune di Serle, in provincia di Brescia, e altre indagini hanno preso spunto da quel furto.
Forse i girovaghi di Termini hanno dato qualche indicazione sulle persone che Liboni avrebbe dovuto incontrare tra i giardinetti, oppure su alcuni dei posti che frequentava quando doveva pernottare nella capitale: un ritrovo a Settebagni dove dormono alcuni barboni, un altro a Tivoli, un altro ancora a Frascati. Una possibile traccia è stata trovata in un luogo dove abitualmente dormono alcuni rumeni, poco fuori città, tra la via Casilina e la via Prenestina: il killer in fuga avrebbe dormito lì una notte per poi andarsene alle prime luci dell’alba.
Dopo il conflitto a fuoco in piazza della Repubblica e la fuga in metropolitana fino ad Anagnina, l’uomo era tornato al centro, muovendosi con furbizia e controcorrente rispetto alle forze dell’ordine, e di nuovo si era mimetizzato nel mondo del degrado dove cercava abiti di ricambio o l’opportunità di farsi portare qualcosa da mangiare acquistato altrove.
Si lavava e vestiva nei locali pubblici nei quali si serviva delle toilette per lavarsi e sistemarsi. Consumava pasti tranquilli, per non destare sospetti, e se ne andava senza fare mai una telefonata o lasciare dietro di sè alcuna traccia che da quel locale portasse al suo rifugio. Che poteva essere anche qualche giardino condominiale, o angoli nascosti nei parchi pubblici, spesso utilizzati dai senzatetto.
“Non ci ha davvero sorpreso scoprire che Liboni era ancora a Roma”, hanno infatti detto gli esperti dei carabinieri. “L’uomo era abilissimo nel celarsi fra la gente, grazie anche alle sue tecniche di travestimento. Quando è stato intercettato al Circo Massimo non portava gli occhiali, eppure, nello zainetto che aveva con sè, ne aveva di diverse fogge pronte ad essere usate secondo le necessità”.
In quegli stessi giorni, però, il pregiudicato veniva cercato dai carabinieri anche fuori della capitale, nei campi nomadi di Latina e Frascati, e anche in altre regioni del centro Italia. L’ultimo avvistamento di un certo valore avvenne però sempre a Roma, il mercoledì 28 luglio nei pressi di villa Celimontana, al Celio, non lontano dal luogo della sparatoria del sabato successivo. L’uomo, che aveva in mano un pacchetto avvolto in un foglio di giornale (forse la pistola?) comprò in strada, da due ambulanti, un paio di pantaloni e due magliette. L’ultima notte, quella tra venerdì e sabato, dovrebbe aver dormito in un prato. Sui suoi jeans c’erano infatti tracce di verde.
Il giorno dopo la morte di Liboni, i carabinieri hanno battuto a tappeto campi nomadi e palazzoni della periferia sud di Roma alla ricerca di un suo covo. Nel giubbotto era stata recuperata anche un’agendina con numeri telefonici e gli investigatori sono andati anche a ispezionare una ventina di call center nella zona della stazione Termini.
Nel corso delle indagini successive all’assassinio nelle Marche, si scoprì che dal bar di Pereto di Sant’Agata Feltria, qualcuno aveva chiamato un numero localizzato nello Sri Lanka. Un’utenza che fa capo ad una donna cui il ‘lupo’ di Montefalco era forse legato sentimentalmente e con la quale avrebbe fatto delle operazioni immobiliari nel Paese asiatico. Sulla scia delle indagini, un reparto speciale dei carabinieri si è recato sull’isola di Sri Lanka, a dieci ore di aereo dall’Italia, e ha trovato la donna. Forse l’unica persona di cui ultimamente ‘lupo’ solitario si fidava, l’unica a cui telefonava. Compagna di vita e negli affari, la ragazza cingalese, 32 anni, vive a Negombo, una cittadina balneare della costa occidentale, non lontana dalla capitale Colombo. La località è in posizione strategica, presso l’aeroporto internazionale: un luogo facile da raggiungere, e anche da abbandonare alla svelta, se necessario. Il luogo giusto per un uomo in fuga. Molti gli indizi che legano la ragazza a Liboni. In una tasca del giubbotto jeans che indossava sabato mattina, prima dello scontro a fuoco, il pregiudicato aveva con sè gli atti di compravendita di quattro terreni e di una casa in quel paese. Probabilmente investimenti fatti con la donna cingalese. Era forse questa la prospettiva di vita del pregiudicato: ancora qualche colpo in Italia e poi la fuga.
Il tenente colonnello Salvatore Luongo, Comandante del Reparto territoriale di Roma, ha tenuto una conferenza stampa, in cui ha detto che le forze dell’ordine erano già molto vicine alla cattura. Secondo gli investigatori Liboni avrebbe dormito all’aperto al Pigneto, un quartiere popolare a Roma Est, sicuramente la notte di sabato scorso e forse anche qualcuna di quelle precedenti. Nel corso delle indagini i carabinieri erano già riusciti a circoscrivere la zona dove rintracciare il ricercato, ed erano pronti ad effettuare un blitz nella zona e nel Prenestino. Liboni, sempre secondo gli investigatori, durante la sua latitanza non avrebbe mai utilizzato il telefono, nè fisso nè cellulare. Di giorno si spostava tra la Stazione Termini, Piazza Vittorio e Piazza della Repubblica con “movimenti precisi e protetti” - ha detto il colonnello Luongo - per le vie laterali in un territorio che conosceva bene: una strategia che aveva messo in atto altre volte ma che gli investigatori conoscevano bene e si aspettavano da lui”.
I militari del Nucleo operativo di via in Selci e del Comando provinciale hanno accertato che Liboni la mattina di sabato scorso si è allontanato rapidamente dal Pigneto, dove aveva trascorso la notte su una panchina, per dirigersi verso il centro della città. Il latitante è passato per piazza della Repubblica ancora una volta, poi in via Nazionale, in piazza Venezia e in via Petroselli, davanti alla Bocca della Verità e al Circo Massimo. Un percorso frequentato da centinaia di persone, che forse Liboni aveva scelto di proposito. “Era costretto a muoversi in continuazione per non essere identificato e sfuggire alle ricerche”. I militari dell’Arma sono convinti che l’uomo stesse cercando un falsario che avrebbe potuto procurargli un passaporto per fuggire all’estero.
Il maggiore dei Carabinieri Giovanni Arcangioli, comandante del Nucleo Operativo di via in Selci, ha detto che in quei giorni “non è stato possibile determinare se Liboni abbia avuto un complice, ed è difficile configurare accuse di favoreggiamento”; ha aggiunto però che le indagini continuano fra persone senza tetto, emarginati come lui, da cui non si esclude che abbia ricevuto degli aiuti. Il comandante ha rivelato che le forze dell’ordine avevano ormai individuato la zona dove il latitante si nascondeva di notte. “Gli mangiavamo il tempo”, ha detto, aggiungendo che i carabinieri stavano mappando i suoi movimenti a cerchi concentrici ed erano pronti per un blitz al Pigneto. Il maggiore ha detto che al momento della cattura Liboni era perfettamente rasato rispetto alle segnaletiche, la barba era al massimo di un giorno, niente pizzetto, nè occhiali da vista. Indossava maglietta e jeans.
Di contro, nel corso delle indagini anche qualche commento anonimo dalla ‘mala’ romana “... non potevamo davvero aiutarlo, non l’avremmo mai fatto .....Luciano Liboni non era un delinquente, non era uno di noi, quello era un infame. E la differenza è grande... uno così non puoi coprirlo”. Dalla Garbatella al Tufello, da Primavalle al Prenestino, da Trastevere al Casilino, il messaggio tra i vecchi uomini della ‘mala’ è stato chiaro fin da subito: “il ‘lupo’ non va aiutato!”.
Le congratulazioni all’Arma dei carabinieri
Immediate da ogni fonte istituzionale, le congratulazioni all’Arma dei Carabinieri per il risultato raggiunto: primo fra tutti il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che, appena appresa la notizia della cattura, ha chiamato il Comandante dell’Arma Gottardo, e gli ha espresso le più vive congratulazioni per il successo e la grande professionalità dimostrata dai suoi militari.
Il prefetto di Roma Achille Serra, con molta semplicità, ha detto “sono felicissimo”, e si è dichiarato anche molto soddisfatto che un cittadino comune accogliendo l’appello alle segnalazioni trasmesso dalle forze dell’ordine, con molto senso civico, abbia dato il via, attraverso i vigili urbani, alla fase conclusiva della ricerca.
Il Presidente del Consi-glio Berlusconi si è congratulato con il Mini stro dell’Interno Pisanu e con il Comandante il generale dell’Arma, per l’intenso coordinamento tra le forze dell’ordine. Anche i Presidenti di Camera e Senato, Pera e Casini hanno fatto i loro complimenti e il presidente della Camera fra gli applausi dell’Aula di Montecitorio.
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