Secondo un Centro di assistenza specializzato che opera nelle scuole e nelle famiglie, il suicidio fra i giovanissimi sarebbe la seconda causa di morte, immediatamente dopo gli incidenti stradali
Del suicidio tra i giovanissimi, che secondo un istituto di ricerca sarebbe la seconda causa di morte, dopo gli incidenti stradali, non se ne parla perché chi ne è interessato prova vergogna . Lombardia e Sicilia sarebbero le regioni che condividono questo triste primato spesso celato – secondo gli educatori – dalle statistiche ufficiali. Nella sola Milano, sarebbero oltre 1.300 ragazzini che ogni anno compiono l’atto di autolesionismo estremo. “E tutto ciò avviene sotto gli occhi di insegnanti e genitori che non sono in grado di coglierne i segnali”, sostiene lo psicoterapeuta Augusto Pietropolli Charmet, esperto di disagio giovanile.
La notizia nasce proprio a Milano dove opera un ‘Crisis Center’ della associazione “L’Amico Charly” che offre assistenza gratuita ai ragazzi a rischio, alle loro famiglie e agli insegnanti. Gli esperti dell’Associazione sostengono che è meglio parlare del fenomeno, per creare una cultura dell’ascolto del giovane che stimoli la vitalità.
Secondo le statistiche ufficiali sarebbero poco più di cento tentativi di suicidi in un anno nella metropoli lombarda: secondo i ricercatori della ‘Charly’ sarebbero invece oltre un migliaio. Ma allora, attorno al drammatico fenomeno si costruisce un muro invalicabile di omertà? Sarebbero dunque falsate le statistiche e le ricerche epidemiologiche ufficiali? Che, per altro - segnalano i dati Istat – Lombardia e Sicilia sarebbero le regioni con le punte più preoccupanti. Il nostro Paese, che risulta ultimo in Europa quanto a numero di suicidi (appena prima del Portogallo), questo dato al ribasso sarebbe ‘confortante’ solo perché da noi si è più dediti – dicono gli esperti – a nascondere le morti volontarie, soprattutto dei più giovani.
Esisterebbe quindi una ‘congiura del silenzio’ che avvolgerebbe e anestetizzerebbe il problema della decisione di farsi del male. La vergogna, secondo i ricercatori, avvolgerebbe il protagonista in crisi, la sua famiglia, la scuola che frequenta. C’è chi tra gli esperti è convinto che non parlare delle forme estreme di disagio giovanile sia meglio: perché diversamente si finisce per istigarle, per incentivare una certa voglia di emulazione e si tende sempre a non scoperchiare il pentolone dove ribolle il disagio degli adulti, genitori e professori compresi.
Dall’altra parte c’è chi “sulla base dell’osservazione scientifica” sostiene invece che affrontare e approfondire il tema dell’autolesionismo, portato all’estremo tra i teenager, vuol dire fare azione di prevenzione. In testa a questa battaglia mper una informazione scientifica chiara, è il professor Augusto Pietropolli Charmet, psicoterapeuta di fama e di chiaro impegno per salvare i “ragazzi tentati dalla morte”.
“Nell’ultimo anno ho seguito personalmente 136 casi di tentato suicidio; ritengo che sia un numero da moltiplicare almeno per dieci, che vuol dire oltre 1.300 nella sola Milano”, afferma il professore che è proprio il responsabile scientifico del Crisis Center voluto dall’associazione non profit milanese “L’Amico Charly”.
L’associazione ha firmato un protocollo d’intesa con l’Ufficio scolastico regionale della Lombardia. Offre gratuitamente, da ormai due anni, ora anche con il sostegno economico della ‘Fondazione Umana Mente’, assistenza specialistica per la prevenzione e la gestione del postvention (ovvero dell’avvenuto evento traumatico) sia all’interno della scuola che dentro le famiglie.
“La scuola è lo scenario da presidiare per capire i ragazzi in crisi e quindi prevenire i loro gesti estremi. E la scuola è il palcoscenico ideale dove esprimere il loro disagio più profondo”, spiega la professoressa Maria Grazia Zanaboni, trent’anni di insegnamento di lettere classiche (premiata quest’anno con la Rosa Camuna della Regione Lombardia e nel 2003 con l’Ambrogino d’Oro dal Comune di Milano), ma anche zia di ragazzo, bello e bravo e di famiglia benestante, morto suicida nel 2001. “Gli insegnanti e i dirigenti scolastici dovrebbero fungere da antenne per captare i segnali d’allarme del disagio dei propri studenti e quindi essere in grado di disinnescarli”, conviene Marina Valassuga, vicedirettore dell’Ufficio scolastico lombardo.
Segnali d’allarme che vengono però per lo più negati e oculati. “Gli insegnanti sono ormai spenti nella loro passione educativa dalle varie riforme, hanno difficoltà a guardare negli occhi i ragazzi e a decifrare il loro disagio”, sostiene Ermelina Ravelli, preside della scuola superiore Capirola di Leno, in provincia di Brescia, dove Desirée Piovanelli venne rapita e uccisa durante un tentativo di violenza sessuale.
Ma spesso i ragazzi fanno gesti estremi senza dar segnali delle loro intenzioni. “Ho avuto un ragazzo morto suicida tre anni fa che era il più bello e il più bravo della scuola. Un ragazzo di successo e con grandi talenti”, racconta Andrea Boselli, preside del liceo Galilei di Legnano. Molti i casi di disagio che ha visto nel suo istituto: “E il problema più grande consiste sempre nel far uscire allo scoperto la famiglia: è difficile riconoscere il disagio del proprio figlio perché lo si vive come una propria colpa”.
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