Questo fu lo slogan lanciato negli anni ‘90 da Vincenzo Parisi, Capo della Polizia, e da Emilio Del Mese, allora addetto alle relazioni esterne. Ogni poliziotto, per Parisi, dal più modesto al grado più alto, ogni funzionario, aveva l’alto compito di sentirsi sempre vicino alla gente, vicino ai cittadini.
E proprio in quegli anni si affacciava a Roma, dopo difficili vicende di intelligence in Calabria, Nicola Calipari, per assumere via via incarichi sempre più difficili in via San Vitale, alla Squadra Mobile, alla Narcotici, all’Ufficio Immigrazione, al Servizio Centrale Operativo. Chi lo ha conosciuto da vicino, ricorda in lui un uomo della Polizia dall’apparenza mite, spesso taciturno e pensoso, qualche volta allegro, la sigaretta sempre in bocca, il lavoro per lo Stato e per i cittadini innazitutto. Mai una sua fugace immagine - né reale, né idealizzata - con un’arma in mano.
Poi, come spesso avviene, i non addetti ai lavori ne perdono le tracce, pensandolo in qualche tranquillo incarico superiore in altre Questure. Nel suo pacato e concreto silenzio invece, da buon calabrese, quest’uomo mite ma forte della sua preparazione e delle sue indiscutibili doti di investigatore, era passato a incarichi sempre più alti, sempre più difficili, sempre più pericolosi. Nessuna altisonanza, come suo costume di vita, ma grande concretezza nello stare sempre vicino alla gente. E dalla parte dello Stato.
Solo oggi, da qualche frammentario particolare, veniamo purtroppo a conoscenza della sua ultima attività, di quanto, nella copertura più assoluta, ha fatto per salvare persone, forse anche lontane dal suo modo di pensare, forse anche del tutto a lui sconosciute, ma pur sempre oggetto degli obblighi dell’uomo dello Stato. Di quell’uomo della Polizia che aveva sempre in sè l’antico slogan del Capo: essere ‘vicino alla gente’.
La sua ultima operazione per quell’organismo silente che opera in tutto il mondo nell’interesse dello Stato, e che rappresenta il massimo dell’intelligence militare, Calipari la ha compiuta sino in fondo. Vicino, proprio vicino, a chi doveva salvare, la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena.
La sua scomparsa è un dolore per tutti, e soprattutto per tutti gli uomini della Polizia, sia per quelli che non ne sapevano neanche il nome, che per quelli che lo hanno ben conosciuto, tanti dei quali sono poi saliti a vertici istituzionali. Calipari ha sempre rischiato, fino a perdere la vita, in una guerra certo non sua, non contro dei nemici ma, contro un destino avverso. Proprio per salvare non dei militari, ma quelle forze dell’informazione, o della solidarietà umana, che da sempre si battono contro la guerra in generale, e contro quella irakena in particolare.
è perfettamente inutile inventarsi oggi teatrini televisivi per scovare nomi di soldati colpevoli, forse, di solo leggerezza o di ordini inadeguati, o per scavare nella fantapolitica: tutto fa però emozione, fa spettacolo.
Il problema vero è che quella guerra non doveva essere fatta, soprattutto in un paese dove un popolo è gravato da oltre un decennio di embargo totale (il più lungo della storia), un paese con cui, finchè ha fatto comodo, in tanti hanno fatto affari petroliferi e oggi, in nome di una democrazia da imporre, lo si è ricoperto di bombe assurde e immotivate, vi si è fomentato l’odio etnico, mentre la diplomazia è stata totalmente emarginata.
Certo, chi deve sapere, sa bene come stanno le cose. Nonostante ciò, però, si mandano le forze ‘di pace’, si mandano gli uomini migliori, a subire anche loro una guerra, ‘di pace’, in cui nessuno crede.
Nicola Calipari è stato uno di questi uomini migliori, avrà il massimo degli encomi, ma nessuno lo potrà mai restituire ai suoi figli.
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