Piace quel sorriso a fior di labbra. Naturale. Non forzato. Non studiato. Un sorriso semplice che testimonia di un animo sereno e rivela una fiducia interiore che trova la sua ragione in una ispirazione altissima. La gente giudica bello e significativo quel suo intrecciare le mani, come se volesse stringere quelle di tutti. Donarsi. Abbracciare. Salutare come fanno gli artisti – attori, cantanti - dal palco, ma con grande sobrietà e senza forzature. Le mani che prima si alzano sopra la testa e poi si allargano come bracci della croce. Più che benedire saluta. Piace il Papa che dice “Cari Amici” e “Arriderci”. Un Papa che fa i gesti comuni, che usa le espressioni normali, il linguaggio della gente che va al lavoro, che viaggia in metropolitana, frequenta il supermercato. Suscita anche tenerezza il successore di Giovanni Paolo II col suo fisico che non appare massiccio o atletico e la voce che non sembra tonante. Ma l’uno – la silhouette - e l’altra – la voce - denotano forza e fermezza. Nessuna debolezza. Nessun tentennamento. Scende e sale nell’auto targata “CV1” o nella “papamobile”, percorre la strada a piedi nella sua figura snella.
I “fisionomici”, i massmediologi (un giornalista non vaticanista di “Repubblica”), altri sapienti – come il cattedratico Mario Morcellini - studiano il personaggio Ratzinger, l’Uomo vestito di bianco, Papa Benedetto XVI: i tratti fisici, i gesti, il modo di muoversi, di parlare, di rivolgersi alle persone, ai singoli come alle folle dei fedeli, alle personalità come a un commesso d’anticamera, a un Capo di Stato o un primo ministro, a una regina o a una suora, a cardinali e vescovi come a un seminarista. La gente lo percepisce vicino. In tutto e per tutto “umano”. Non lontano. Non stratosferico. Tanto meno alieno. Come farebbe chiunque, tira fuori gli occhiali per leggere l’omelia, un fazzoletto per attutire un colpetto di tosse, schiarirsi la voce. Nessun gesto è ridondante o ampolloso. Gli applausi gli danno la misura che è nel cuore della gente, in sintonia con loro. Forse li vorrebbe più brevi per non allungare i tempi. Un Papa che non fa sfoggio della sua grande cultura, né esibisce il rigore di cui tutti parlano. Ai giornalisti, il sabato, parla nelle quattro principali lingue solo perché i giornalisti vengono da tutti il mondo. Ai milioni di fedeli in piazza San Pietro e dintorni, nonché ai milioni davanti ai teleschermi , dice espressamente – e delude gli esegeti del suo pensiero - che non si tratta di esporre ‘un programma di governo’. Meglio porsi all’ascolto di Dio. Non usa concetti, ma immagini. Quasi materializza il pastore che va a cercare tutte le pecore, anche quelle che non sono del suo ovile. Rievoca quella pesca di 53 pesci che fanno Pietro e gli altri apostoli su invito di Gesù. Non riuscivano a tirarla la rete, ma non si ruppe e nessun pesce andò perduto. Oggi quella rete forse è smagliata. Descrive il Papa un deserto da cui deve uscire l’umanità per approdare a terre fertili. Pastore e pecore, ma anche lupi. Di questi Benedetto XVI non ha paura. Lo confortano le parole di Giovanni Paolo II e le preghiere di tutti a cui si affida.
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