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Del seguente articolo:

mag/lug/2005 -
Nell'inferno di un tunnel
Andrea Nemiz

Una densa nube di fumo, fiamme, urla, sangue. I viaggiatori scappano dai vagoni come impazziti, si lanciano nel buio tra schegge di vetro e metallo, corrono verso la luce. La corrente elettrica è interrotta. Fuggire per non morire. Era il 7 luglio scorso quando Londra è stata colpita al cuore dal terrorismo: quattro esplosioni su bus e stazioni della metro nel giro di un'ora. Oltre cinquanta le vittime accertate, 700 i feriti. Dopo Madrid, Il terrorismo è tornato a colpire in Europa.
Le immagini - peraltro scarne soprattutto per il self control dei sistemi di sicurezza britannici che nulla hanno voluto concedere alla platealità di un attacco terroristico (immensi teloni bianchi quasi magicamente sono spuntati ovunque per coprire la vergogna della morte in diretta). Nessun vittimismo. Da secoli Londra è abituata allala guerra.
Unico elemento profondamente umano, le centinaia di cartelli fatti in casa con le immagini dei dispersi, una speranza labile ma comunque dai significati reali. Cartelli vergati con il pennarello, fotocopie di documenti, di gruppi familiari, attaccati con le mollette alle reti, ai pali, alle grate attorno alla metro. La disperazione dei parenti è immensa ma la tenacia nei tentativi di ricerca non si spegne. Passano i giorni, qualche cartello viene per fortuna ritirato fra lacrime di gioia, altri rimangono lì a testimoniare dolore e disperazione dei cittadini che hanno perso un congiunto, un amico.
Colpita al cuore la rete dei trasporti di Londra: le tre esplosioni nella metropolitana hanno poi innescato altri terribili scoppi provocati da corto circuiti elettrici, oltre a un kamikaze che si è fatto saltare in aria su un autobus a due piani. Tutto nel giro di appena un’ora. Erano le 8.49 (le 9.49 in Italia) quando tra le stazioni di Liverpool Street e Aldgate East è esplosa la prima bomba. Nel cuore della City. Due minuti dopo la sequenza di morte continua, c’è un’altra esplosione: questa volta nel tunnel della stazione di Edgware Road. Tre minuti dopo, un’altra a King's Cross. Alle 10.04 - circa un'ora dopo - salta in aria l’autobus che transita vicino Russel Square. Stesse scene di panico ovunque. I centralini saltano, i telefonini non parlano più, i passeggeri che salgono in superficie sono laceri, il sangue cola sui vestiti a brandelli. Il traffico delle auto va in tilt, solo le sirene rompono il silenzio irreale calato sulla City. Vengono chiuse le stazioni ferroviarie di King's Cross, St. Pancreas, Liverpool Street, Stratford e Adgate East, poi di tutta la rete della metropolitana. E anche tutti gli autobus diretti verso il centro vengono bloccati, i passeggeri invitati a scendere. All’inizio si pensa un guasto, a un incidente. Pian piano prende corpo l’ipotesi degli attentati: viene trovata una bomba in una stazione della metro. Solo dopo tre ore dalle esplosioni, il numero uno di Scotland Yard, Ian Blair, ha ammesso che si è trattato di un “attacco terroristico di grande portata e forse non è ancora finita - ha detto - non bisogna abbassare la guardia, dobbiamo vigilare e resistere”.
Dopo l’orrore, ancora paura e incertezza.


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