..."Il tetto s’è bruciato, ora posso vedere la luna"...
Nei secoli scorsi la città di Tokio si chiamava Edo e gli incendi che sbocciavano all’improvviso nell’antica capitale giapponese erano denominati i “Fiori di Edo”. Le case di quel tempo erano fatte di legno, carta e paglia. Era un Giappone, quello dei fiori di fuoco, in cui i bambini dovevano imparare precocemente quali fossero “I Quattro Grandi Terrori” dati da una tremenda filastrocca: "terremoto, tifone, fuoco e papà".
Ancora oggi, in questo arcipelago di origini vulcaniche, non è raro vedere pennacchi di fumo levarsi alti dai crateri dei quaranta vulcani ancora attivi. L’architettura tradizionale è stata però principalmente influenzata dai terremoti, poiché qui in un solo anno si possono avvertire centinaia e centinaia di scosse che spesso raggiungono magnitudo 4-6 della scala Richter o si accompagnano a maremoti in grado di distruggere la costa a centinaia (talvolta migliaia) di chilometri dall'epicentro. Mille scosse in un anno significa 3 scosse al giorno tutti i giorni: nel Paese degli dei, le case dovevano prima di tutto accogliere le perosne e proteggerle dalla furia dei terremoti, dovevano anche flettersi gentili, e magari soccombere senza causare troppi danni. Non venivano costruite con lo scopo di opporsi alle forze della natura, ma col chiaro intento di assecondarle.
Era un Giappone, questo, in cui grazie alle foreste rigogliose si poté dare vita a una vera e propria civiltà del legno, tutto era costruito in armonia con la natura, utilizzandone i molteplici materiali. L’intelaiatura delle pareti era di bambù e veniva ricoperta di argilla impastata con sabbia e paglia; per sfruttare pienamente l’elasticità del bambù e la naturale flessibilità del legno non era contemplato l’uso di chiodi, che avrebbero spezzato l’uno e indebolito l’altro: si rese necessario un sistema di connessioni alternativo, la carpenteria giapponese sviluppò un complesso incredibile di giunti (hanno 120 tipi di giunzioni, contro le 10 conosciute in occidente), e le ammorsature delle travi non erano rigide ma flessibili, perché potessero ammortizzare gli urti; si evitavano le giunzioni trasversali o diagonali che durante i terremoti non avrebbero assicurato un’elasticità adeguata e spesso, invece, si utilizzavano giunzioni di tipo longitudinale, poiché le lunghe aste lignee collegate ai pilastri resistevano molto bene sia alla trazione che alla compressione. I pavimenti erano coperti con i "tatami", stuoie di paglia intrecciata imbottita con stoppie di riso. I tetti, pure di paglia, a volte erano ricoperti di tegole in legno o, per i più ricchi, in ceramica. Le porte e le finestre di carta scorrevano silenziose su telai di legno, durante i rigidi inverni ci si difendeva dal freddo sedendosi intorno all’ "irori", un braciere che consisteva in una grande apertura quadrata nel pavimento della stanza principale, rivestita in legno o pietra e riempita di cenere e in essa il carbone ardeva per tutto il giorno. L’irori era il cuore della casa, ai bambini piaceva ascoltare storie standovi seduti intorno, lo si utilizzava anche per cucinare e il fumo che si alzava dalle braci asciugava la paglia di cui erano costituiti i tetti e ne teneva lontani i parassiti: Non è difficile immaginare, però, come bastasse una distrazione da poco, per trasformare un incantevole momento di quiete domestica in un inferno: una scintilla, la manica di un kimono inavvertitamente avvicinata alle braci, un pezzetto di carbone incandescente, e immediatamente la favilla appiccava il fuoco, che in breve tempo si tramutava in un incendio, alimentandosi del combustibile di cui erano costituite tutte le case. Nelle città la situazione era ancora più grave a causa della particolare e pericolosa tipologia abitativa definitasi nel corso dei secoli. Nell’antica Edo le abitazioni, in un clima di generalizzato benessere cittadino, erano divenute più solide e stabili, si ovviò agli alti costi delle facciate costruendo case sviluppate su due o tre piani, strette e molto estese in lunghezza. Gli ukiyo-e, le stampe giapponesi che ci consegnano immagini caratteristiche della città di Edo divenuta nuova capitale, la raccontano attraverso piccole botteghe e abitazioni strette le une alle altre, allineate sui due lati di strade non molto ampie, attraverso i quartieri dediti al divertimento affollati di gente che si reca agli spettacoli del teatro Kabuki o alle sempre più diffuse sale da the. Questo sistema di costruzione si è protratto a partire dal 1600 per circa due secoli e mezzo: per tutto il periodo Tokugawa, a causa del proliferare di commercianti in città, si sono sviluppati sempre di più i tipici blocchi di edifici detti nagaya, che letteralmente significa "fila di case unite da uno stesso tetto", con locali commerciali e botteghe con una facciata sulla strada principale, e piccoli alloggi. I depositi di legname, inizialmente disposti sulla riva ovest del fiume Sumida, vennero posizionati un po’ ovunque il fermento edilizio lo richiedesse.
La particolare configurazione di Edo fu la principale motivazione dei molti incendi che la colpirono fin dai primi del ‘600, ma è soltanto con il quinto shogun, Tokugawa Tsunayoshi, che si costituì un vero e proprio corpo dei pompieri, in seguito a un terribile incendio che nel 1656 aveva devastato per l’ennesima volta, ma in proporzioni mai raggiunte prima, la capitale. Gran parte del patrimonio artistico andò perduto, le fiamme, che avevano trovato lungo il loro cammino combustibile facile in ogni edificio, causarono la morte di un quarto della popolazione, molti, in preda al panico, non erano riusciti a fuggire lungo le strettissime e popolose vie della città. Metà di quella potente capitale fatta di materiali gentili, andò persa per sempre.
Oltre a costituire il corpo dei pompieri, lo shogun applicò una serie di provvedimenti allo scopo di contenere futuri danni (nei due secoli e mezzo del periodo Tokugawa, Edo conobbe la furia di 500 incendi di grosse proporzioni, tralasciando ovviamente le migliaia di piccoli focolai trascurabili e molto frequenti).
Le nuove normative prevedevano lo spostamento di tutti i depositi di legname in un’unica zona paludosa, ideale perché spesso soggetta a inondazione durante i temporali, e la costruzione di una rete idrica che ne agevolasse il trasporto, utile anche come tagliafuoco. Si mantenne la medesima tipologia costruttiva delle nagaya, ma le strade, tenute pulitissime dalle erbacce e col terreno ben battuto, divennero più larghe. In casa era obbligatorio avere sempre a portata di mano ingenti scorte d’acqua per sedare le fiamme sul nascere, e anche nelle strade si diffusero grandi recipienti contenenti acqua ed erano collocati ciascuno a pochi metri dall’altro. La città fu divisa in blocchi di case, circondati da alte mura in legno robusto dotate di porte che durante la notte venivano chiuse in modo che ciascun settore fosse isolato dagli altri: su un legno tanto massiccio le fiamme attecchivano con più difficoltà e si poteva così esercitare un maggiore controllo sulla propagazione del fuoco da un blocco all’altro. Si costruirono torri di vigilanza dotate di una campana: i rintocchi avvertivano dello scoppio di un incendio, e la loro intensità e frequenza dava informazioni in tempo reale sulla gravità della situazione.
Con tutta questa essenziale ma pratica organizzazione fu quindi necessario comunicare anche fiducia ai cittadini sconvolti dagli eventi. E fu così che, per presentare il corpo dei pompieri che da quel momento avrebbero rischiato la loro vita per spegnere le fiamme, nel gennaio del 1657 si organizzò uno spettacolo in cui i vigili del fuoco diedero prova di grande coraggio, preparazione tecnica e atletica esibendosi in funambolici esercizi acrobatici. Ancora oggi, a distanza di 340 anni, gruppi speciali del corpo dei pompieri si esibiscono ogni anno a Tokyo (e non soltanto). Alcuni di essi volteggiano in ardite acrobazie appartenenti alla tradizione, indossando veri costumi d’epoca, ormai veri oggetti di culto ricercatissimi dai collezionisti. Altri uomini del Corpo impegnandosi in moderne peripezie, danno spettacolo tutti insieme per celebrare la nascita delle prime brigate e per ricordare il valore di quanti sono morti nel salvare i cittadini dai “Fiori di Edo”. Nel 1997 ha debuttato a Tokio una nuova squadra di Vigili del Fuoco, nata in seguito al terremoto che due anni prima aveva devastato Kobe e dintorni, specializzata nel salvare le persone intrappolate tra le macerie dei palazzi: si esibì simulando azioni spericolate mediante l’utilizzo di cariche ravvicinate di tritolo.
Oggigiorno la megalopoli nipponica può vantare anche un modello di elicottero con getto orizzontale, in grado di estinguere le fiamme nei grattacieli, mentre le tecniche impiegate dai primi vigili del fuoco, colpiscono per la rudimentale semplicità. La mancanza di mezzi veramente efficaci per contrastare le fiamme rendeva i pompieri una sorta di eroi agli occhi della gente, ma chi aderiva al corpo dei Vigili del Fuoco era sovente animato da uno spirito tutt’altro che eroico. In un paese come il Giappone in cui le case prendevano fuoco come ramoscelli in estate, a una buona dose di coraggio dovevano affiancarsi anche incoscienza e spesso disperazione, per scegliere di dedicarsi a questo mestiere; talvolta era l’unico modo per riscattarsi agli occhi di una società rigidissima e gerarchizzata come quella del Sol Levante: chi aveva avuto problemi con la legge, chi non aveva una casa o un lavoro fisso, entrava a far parte del corpo dei pompieri e immediatamente raggiungeva livelli di rispetto impensabili nelle precedenti condizioni.
Diventare degli eroi era anche un modo per essere reintegrati nella società. Gli unici per i quali forse non valeva questo discorso erano i pompieri samurai, addetti soprattutto alla protezione del loro signore, coraggiosissimi per nascita e indole, dotati di sgargianti divise dalle spettacolari decorazioni. Temutissimi dai cittadini comuni, i pompieri portavano salvezza e distruzione, il loro compito principale consisteva nell’abbattere gli edifici che circondavano quello in fiamme, e lo facevano a grandissima velocità, utilizzando uno strumento chiamato kamayari, una sorta di arpione, per sottrarre il combustibile di cui era piena la città all’avidità del fuoco. Dovendo però prima di tutto difendere la residenza dello shogun, non si ponevano troppi problemi etici nel radere al suolo case su case e così ben presto si diffuse un detto secondo il quale i pompieri erano da temere più degli incendi stessi.
La loro divisa era costituita, oltre che di copricapo e guanti, di indumenti composti in vari strati di tela di cotone, un tessuto che aveva la peculiarità di trattenere bene l’umidità e che prima di entrare in azione veniva inzuppato d’acqua. Ogni divisa era contraddistinta da uno stemma che identificava la brigata di appartenenza, poiché tra di loro c’era una grande rivalità: era motivo di orgoglio raggiungere per primi il luogo dell’incendio, come dimostrano le molte stampe in cui si vedono i vari gruppi contendersi lo scettro dell’efficienza.
Questa rivalità non era circoscritta all’ambito lavorativo, anzi erano molto frequenti le liti di strada, che scoppiavano tra le varie brigate di pompieri ma non soltanto: Una volta avvenne che, animati tutti da un temperamento incandescente, diedero vita ad una rissa storica durata un’intera giornata in cui vennero coinvolti dei lottatori di sumo davanti ai quali nessun pompiere indietreggiò. L’episodio divertì al punto da essere prontamente trasformato in un’opera teatrale del popolare Kabuki, e ne restano testimonianze, ancora una volta, anche nelle numerose stampe che tanto spesso avevano per soggetto i vigili del fuoco.
A parte i coloriti episodi di cui si rendevano protagonisti, nei Vigili del Fuoco nipponici si sviluppò una mentalità di gruppo che stringeva in un vincolo di solidarietà davvero forte gli appartenenti alla medesima brigata: non solo parlavano un proprio gergo e indossavano divise con lo stesso stemma, ma tatuavano gran parte del corpo con immagini che rappresentavano divinità protettrici, segni tangibili dello spirito che li univa ai colleghi.
Lo strumento più emblematico dei pompieri del Giap-pone antico fu certamente il "matoi", generalmente tradotto come "stendardo", perché sormontato dall’emblema della brigata, che aveva anche una funzione pratica. Esisteva la figura del "portatore di matoi", il cui compito consisteva nel tenerlo ben alto, dalla sommità di un tetto, fino a quando il fuoco non fosse del tutto soffocato: bisognava mostrare a quale brigata si apparteneva, rendere identificabile la posizione in cui ci si trovava ed eventualmente richiamare, facendo segnali, altri pompieri (in questo è facile riconoscere un forte retaggio derivante dalle bandiere portate dai guerrieri sui campi di battaglia). Il matoi, essenzialmente un bastone all’estremità del quale pendevano molte strisce di tessuto inzuppate d’acqua, era anche lo strumento con cui ci si difendeva dalle scintille: il portatore, che si disponeva in cima all’edificio in fiamme, quando possibile, o nelle immediate vicinanze, lo faceva roteare: le scintille che si levavano verso l’alto o si diffondevano nei dintorni venivano così bloccate e si estinguevano tra le strisce di stoffa inzuppata d’acqua. Naturalmente capitava con grande frequenza che il portatore stesso del matoi si ustionasse o soccombesse soffocato dalle inalazioni del fumo: per quanti ne cadessero, ce n’era però sempre uno pronto a sostituirlo.
Nel corso dei secoli i pompieri aumentarono di numero, un documento del 1738 menziona più di undicimila pompieri su una popolazione di un milione di cittadini, un pompiere per ogni cento persone. Nel 1850 vennero impiegati oltre 24.000 pompieri per proteggere la città di Edo. Mal-grado le precauzioni, infatti, e l’aumento degli arruolati, la storia del Giappone non conosce tregua per quanto riguarda gli incendi. Un incendio scolpito nella memoria della gente come un incubo fu quello che scoppiò nel 1923: il primo settembre, quando mancavano due minuti a mezzogiorno e nelle case tutti i fornelli erano accesi per cuocere il riso, un terremoto con epicentro nella regione del Kanto produsse la formazione di innumerevoli focolai nelle cucine di tutta Tokyo: le case si trasformarono in bolge infernali, gli incendi scoppiarono ovunque, il crollo degli edifici in muratura bloccò le strade rendendo difficile l’intervento dei vigili. Furono 142.807 le persone che persero la vita, la maggioranza delle quali a causa delle fiamme e non dei crolli. Un numero di vittime superiore a quello della bomba di Hiroshima fu invece la stima dei bombardamenti del ’44 -’45; lo scrittore Fosco Maraini descrive quella Tokyo con l’immagine di una distesa di scatoline in legno e carta cui sarebbero bastati pochi fiammiferi per accartocciarsi come una foglia secca: gli americani impiegarono centinaia di B29 che riversarono sulla città una pioggia di bombe incendiarie.
La ricostruzione che seguì npn si allineò però sulla tradizionale architettura giapponese: le case in legno vennero progressivamente sostituite da materiali moderni e Tokyo acquisì sempre di più la configurazione che si conosce oggi, eppure, esplorando oggi i siti internet giapponesi, consultando gli opuscoli informativi, ascoltando le raccomandazioni che sempre si accompagnano alle manifestazioni di inizio anno, ci si imbatte facilmente in consigli dal sapore antico, gli stessi che certamente si facevano in quel mondo di carta e legno popolato dagli dei centinaia d’anni fa: accertarsi, ad esempio, di avere spento perfettamente i mozziconi delle sigarette prima di gettarli tra un grattacielo e l’altro o nelle periferie ingrigite dal cemento, mantenere buoni rapporti con i vicini di casa affinché veglino in nostra assenza su eventuali focolai.
La televisione ha recentemente trasmesso un telefilm di chiaro stampo didattico, in cui la protagonista, perso il lavoro, entra a far parte del corpo dei pompieri: in ogni episodio si misura con le mille situazioni che possono causare un incendio, redarguendo così ogni tipo di negligenza o disattenzione. Il grandissimo successo di pubblico riversato sullo spettacolo testimonia ancora una volta l’attaccamento di questo Paese ai pompieri e alle storie che ne parlano. Oltre ad avere ucciso milioni di abitanti del Sol Levante, il Grande Terrore nipponico ne ha distrutto gran parte del patrimonio artistico e molto di quello che avrebbero avuto da raccontare l’arte e l’architettura rimarrà per sempre un mistero imperscrutabile.
Sebbene abbia inghiottito tanta della memoria antica, il fuoco ha però regalato al mondo uno dei più grandi artisti del Giappone, amatissimo anche da Van Gogh che volle riprodurne alcune opere: Utagawa Hiroshige, figlio di un pompiere e a sua volta pompiere, prima di dedicarsi completamente all’arte, per ben 14 anni ha vegliato sulla sicurezza della città dalla cima delle torrette di controllo e, quando ha lasciato questo nobile e pericoloso mestiere per la pittura, nelle sue vedute della capitale, a volte seminascoste dai rami di un albero, a volte libere di spaziare verso l’orizzonte, si è spesso ricordato di quelle lunghe ore trascorse a osservare Edo dall’alto; del resto anche i versi del poeta Masahide, nato nel 1657 come il corpo dei pompieri, sembrano suggerire con incantevole lirismo zen uno spirito diverso nei confronti del fuoco: "Il tetto s’è bruciato, ora posso vedere la luna"...
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Foto: Una preziosa stampa del ‘700 che raffigura un Vigile del Fuoco davanti a un incendio e, in alto, l’immancabile luna citata nei versi del poeta Masahide, nato nel 1657, lo stesso anno di nascita del corpo dei pompieri giapponesi; i suoi versi sembrano suggerire con incantevole lirismo zen uno spirito diverso nei confronti del fuoco: "Il tetto s’è bruciato, ora posso vedere la luna".
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