Un quarto di secolo di intenso
e proficuo lavoro fra i detenuti di Regina Coeli
hanno portato padre Vittorio Trani a scrivere
un libro di riflessioni sul suo impegno umanitario, oltre
che spirituale dentro le più sussurrate mura
romane, quelle dello storico carcere della capitale
Padre Vittorio Trani ha oltre 60 anni, è sacerdote francescano conventuale, ed è arrivato a Regina Coeli nel lontano 1978. Originario della provincia di Latina, padre Vittorio si avvicinò al mondo del carcere tra il 1972 e il 1974, lavorando a Rebibbia. Prima di arrivare a via della Lungara è stato parroco nel quartiere di Torre Spaccata.
Qualche nota biografica del suo impegno umanitario è tratta da un’intervista a Famiglia Cristiana nella quale il Cappellano traccia una linea del suo impegno nelle carceri italiane. Già il nome dell’istituto penitenziario in cui ha lavorato per decenni, quello di “ Regina del Cielo”, è un canto alla Madonna piuttosto che l’evocazione di un luogo di detenzione (il carcere sorse nel 1881 e sul luogo vi erano due monasteri di suore).
Il carcere si trova nel cuore della città, a metà strada fra il Vaticano e Trastevere. Si affaccia su via della Lungara, che è da secoli uno dei percorsi giubilari per i pellegrini giunti a Roma. L’Istituto gode di un record assoluto: è l’unico penitenziario al mondo ad avere ricevuto la visita pastorale di ben tre Pontefici: Giovanni XXIII, Papa Roncalli, nel 1958, Paolo VI, Papa Montini, nel 1964, una visita che curiosamente non viene mai ricordata) e la terza, l’ultima, quella Giovanni Paolo II, Papa Wojtyla, nel 2000.
“La missione di padre Vittorio Trani, cappellano del carcere romano, si è snodata non solo fra i detenuti ma anche dentro un frammento di storia della città”
L’esperienza di padre Vittorio, che è stata forte, “assorbe energie e crea tensioni, perciò bisogna sapersi rigenerare continuamente”. Altrimenti, spiega, chi rimane fermo lì dentro è come se fosse nel mezzo di un fiume in piena che può travolgere tutto. Dopo 25 anni all’opera fra i detenuti padre Vittorio ha pensato che fosse ora di scrivere un libro di aneddoti, ricordi e riflessioni. Si legge con piacere. Si intitola “Tra il Serio e il Faceto”, lo ha pubblicato Herald Editore di Roma, nella collana "Quaderni dal carcere". Anche il ricavato della vendita ha un suo tratto umanitario e il Cappellano lo ha destinato a finanziare nuovi progetti per il recupero di ex detenuti.
Parlando del suo Regina Coeli, padre Vittorio sottolinea che è un carcere del tutto particolare in quanto “senza dubbio - spiega - di certo vale molto il fatto che si trova nel cuore del quartiere più caratteristico di Roma, quello di Trastevere, ma la ragione principale credo che sia legata al fatto che si tratta del carcere di prima accoglienza della città. Qui i cittadini arrestati arrivano dal territorio, è un carcere che ha un forte rapporto con la realtà locale”.
Domandando al sacerdote quanto vera sia la connotazione di Regina Coeli definito come carcere di povera gente, risponde che “nella stragrande maggioranza dei detenuti ospitati, molte sono le persone che sono state già sconfitte nella vita. Sia chiaro, non mancano coloro che fanno del crimine un proprio progetto, ma la gran parte delle persone arriva qui da realtà difficili. Abbiamo poveracci, drogati, alcolizzati, stranieri, malati di Aids. Finisce qui dentro molta gente che la mattina si sveglia senza sapere che cosa fare della propria giornata”.
Riguardo alla popolazione carceraria straniera il sacerdote spiega che dal 1992 rappresentano ormai la maggioranza dei detenuti.
“Regina Coeli ha una dimensione internazionale e si calcola che siano presenti persone provenienti da almeno una sessantina di nazioni”
Il gruppo forse più numeroso è quello dei rumeni, ma fra quelli più carichi di persone vi sono probabilmente quelli degli albanesi, tunisini, algerini, marocchini, slavi, colombiani, nigeriani.
Alla domanda su come padre Vittorio eserciti il suo mandato spirituale, difficile da organizzare in quella moltitudine di lingue ben diverse l’una dall’altra, nonché di quelle culture altrettanto diverse, il cappellano ammette che le difficoltà non sono poche “anche perché di solito gli stranieri hanno le famiglie lontane e questo li rende ancora più soli. Io cerco di aprirmi al dialogo con tutti. Anche i non cristiani a quel punto non vedono in me un prete, ma uno che li può ascoltare. E per loro è già tanto”
Padre Vittorio spiega inoltre che il carcere nel passato non ha mai avuto una sua propria chiesa o, almeno, una cappella in quanto le funzioni si celebravano nella rotonda centrale. “Oggi però, aggiunge, esiste finalmente il progetto per realizzare una cappella cattolica e quattro luoghi diversi di culto: per i protestanti, gli ortodossi, i musulmani e uno per gli altri culti. Il progetto c’è, ci mancano ancora i soldi”.
Riguardo all’ultima visita di Papa Giovanni Paolo II nel 2000, padre Vittorio afferma che il Pontefice è davvero entrato nel cuore dei detenuti. “Ogni volta che si cita
il Papa, magari nelle intenzioni di preghiera della messa, qui dentro scatta l’applauso. I detenuti lo hanno sentito davvero vicino". Purtroppo l’appello del Papa ai parlamentari per un atto di clemenza verso i detenuti non ha prodotto gli effetti sperati ma, su questo aspetto, spiega il sacerdote, pur in un quadro di proteste “devo dire che ad un certo punto è prevalsa la maturità”. I detenuti si sono probabilmente convinti ad accettare ciò che veniva dato, accontentandosi dell’indultino, ma la delusione deve essere stata davvero grande.
Altro pesante problema è quello che investe i detenuti che hanno scontato la pena e hanno il grave impegno di reinserirsi nella società. Su questo tema padre Vittorio ammette che i reinserimento non è facile, perché “il carcere ghettizza, etichetta, blocca qualsiasi sbocco, distrugge la dignità delle persone. Eppure sono convinto che nessuna esperienza annulli la dignità dell’uomo".
Tutti possono avere attenzione per i detenuti e per gli ex detenuti, spiega padre Vittorio ma, sottolinea, “i cristiani hanno qualche dovere in più: il Vangelo c’invita a visitare i carcerati, ma non è necessaria la presenza fisica. Possiamo farlo anche con la preghiera quotidiana. Le comunità parrocchiali possono prendersi cura dei loro detenuti, si può avere attenzione alle famiglie dei detenuti. Chi se la sente può anche fare opera di volontariato all’interno del carcere".
|