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Del seguente articolo:

Ottobre-Dicembre/2008 -
Immigrazione e interventi umanitari
“Mamma, li turchi”: immigrati, profughi e rifugiati all’arrembaggio
Sergio Petiziol - 1° Capitano Commissario Ist. CRI diritto internazionale umanitario

Curdi, iracheni, cingalesi, bosniaci, rom, senegalesi, algerini, cinesi e moldavi tutti uguali, accomunati da unica condizione: quella di fuggiaschi. Le loro lingue, i dialetti, le espressioni etniche si mescolano in cocktail fonetici inimmaginabili. Sono i nuovi pirati all’arrembaggio delle sponde del nostro ‘bel paese’.

È molto facile riconoscerli a colpo d’occhio per l’atteggiamento rassegnato e inerte di chi ha attraversato mille peripezie. È invece molto difficile andare oltre nel tentativo di capire chi siano e da dove vengano quei temerari disperati che affrontano il doloroso, arduo e mortale cammino dell’abbandono della propria terra alla ricerca di qualcosa che non sanno cosa sarà. I più abili fra i soccorritori che li accolgono per primi, dopo anni ed anni di esperienza sul campo, riescono a malapena ad intuirne la provenienza, i più esperti forse anche la nazionalità. Omologati e resi indistinguibili da un abbigliamento “globalizzato” fatto di fibre sintetiche, tute sportive multicolori, scarpe anche spaiate, indumenti raccogliticci per necessità e non dal gusto personale, smania di colori arditi o futili esibizionismi. Dopo mesi di peregrinazioni su treni, doppifondi di camion sovraccarichi in compagnia di merci e animali, questa sofferta umanità indossa berretti con visiera, felpe di cotone, approssimative imitazioni di marche “griffate”, jeans sformati, stinti e sdruciti, giubbe dal colore indefinibile lordate da settimane. Dopo interminabili giorni di cammino attraverso lande polverose e ostili, sembrano tutti uguali, accalcati in maleodoranti stive delle penose “carrette del mare” o ammassati al limite dell’affondamento in imbarcazioni di fortuna. Quando va bene ma è ben nota la ferocia degli scafisti che, per ridurre al minimo il rischio di un approdo fra le rocce, o per sfuggire ai servizi di sicurezza li scaraventano in mare, pure donne e bambini, onde tumultuose nella loro imparziale crudeltà. Gli occhi dei sopravvissuti vagano vuoti, aggrappati solo a un filo di speranza. Le facce sono attonite, tumefatte, la pelle secca, salsedine e raggi del sole l’hanno violentata. Ovunque le staffilate della stanchezza, dalla disperazione, dalla rassegnazione anche se, labile, ogni tanto riaffiora qualche speranza, ultima rimasta per poi andarsene anch’essa via. E poi la fame, la sete, la sporcizia, il freddo pungente che li rende lividi e smunti o il caldo soffocante che li strema e li asseta li rendono un omogeneo campionario di umanità svilita, affranta, umiliata. Ecco che, dopo un poco di riposo e conforto, una doccia, un tè e qualche galletta delle razioni di primo soccorso, il colore della pelle può aiutare ad individuarne a grandi linee la provenienza. Un monile, un accessorio, l’acconciatura dei capelli, tagli di baffi e barbe particolari, magari anche un turbante, possono aiutare in modo significativo per incominciare a capire, da dove vengono. Chi siano, da cosa fuggono e cosa vanno cercando sarà l’arduo compito successivo. Chiediamoci allora cosa possiamo fare noi, popolo di poeti, santi e navigatori, ma anche popolo di emigranti che ha prodotto svariate ondate di migrazione che hanno faticosamente raggiunto, con il cuore pieno di speranza, tutti i continenti. Declameremo loro i nostri più delicati poemi per lenire la sofferenza delle ustioni causate dal sole cocente e dalla salsedine del Mediterraneo o eleveremo lodi al Cielo inneggiando alla fratellanza fra gli uomini, siano essi induisti, ortodossi, musulmani o buddisti? Oppure riveleremo gli antichi segreti della nostra marineria per far capire che è stato incauto da parte loro affidarsi alla crudeltà senza scrupolo di scafisti ingordi e vigliacchi? Eppure anche molti dei nostri avi hanno provato cosa vuole dire arrivare, ammassati in angusti vagoni, nelle stazioni di Charleroi o Bucarest per poi finire bruciati e sepolti vivi nelle miniere di Marcinelles o nelle oscure foreste della Transilvania, a rompersi la schiena spaccando legna fra lupi e orsi poco ospitali. O arrivare, stremati dal mal di mare, sulle banchine di Buenos Aires, Melbourne o New York, male accolti dagli sventurati che li avevano da poco preceduti: gli irlandesi che parlavano il loro incomprensibile, impenetrabile gaelico. Ma anche se avessero parlato l’inglese di Oxford sarebbe stato lo stesso ostrogoto per i nostri compatrioti Siciliani, Napoletani, Piemontesi o Abruzzesi, catapultati, dal loro duro ma lento e semplice mondo rurale, nel caos della nascente giungla d’asfalto e cemento. Memori delle sofferenze patite dai nostri paesani forse dovremo fare di più che allungare a questi sventurati un piatto di minestra e un cambio di vestiti usati per poi inviarli nei tristemente noti CTP, i famigerati Centri di Permanenza Temporanea. Il fenomeno dell’immigrazione clandestina è così massiccio quanto inaspettato da far gridare alla catastrofe nazionale? Una neobiblica invasione di voraci cavallette si affaccia all’orizzonte? Qualcuno paventa una snazionalizzazione imminente e un’allarmante diluizione degli italici geni a causa di una marea montante di nuove etnie ma, se si analizzano le statistiche, scopriremo che il nostro paese è fra gli ultimi per incidenza del fenomeno. Un unico, ma significativo esempio, ci può far meglio capire. La tanto sospirata guerra (dai potentati del pianeta…), quella che ancora affligge l’Iraq, è arrivata dopo anni di un pesantissimo embargo che non ha risparmiato nessuno e ha prodotto migliaia di morti fra i più deboli, i bambini, a causa della penuria alimentare e di farmaci e cure essenziali. All’embargo la comunità internazionale ha fatto seguire l’intervento “umanitario” per rovesciare il regime dittatoriale di Saddam Hussein e per scovare pretestuosamente le tanto sbandierate armi per la distruzione di massa. Per centrare “l’obiettivo” ha usato aerei supersonici, bombe e missili cosiddetti “intelligenti” che hanno causato stragi e stragi di civili inermi. Attualmente la pace è ben lungi dall’essere raggiunta e i morti fra i civili per le lotte intestine si contano a migliaia. Tutto i percorso di quest’intervento “umanitario” è stato caratterizzato da strazianti sofferenze da parte della popolazione irachena che ha contato nell’arco di quindici anni un esodo di due milioni di persone che hanno fatto anch’esse la loro diaspora, sparpagliandosi in tutto il Medio Oriente. Metà della popolazione che è rimasta non lavora. Le fasce più deboli, donne, vecchi e bambini, muoiono di fame; molte le scuole sprangate per la fragilità della sicurezza e migliaia di insegnanti, medici e professionisti sono stati assassinati. Molti di quelli ancora vivi sono stati costretti a fuggire. Fra i bambini nessuno sa quanti realmente siano quelli falcidiati dalle ‘cluster bombs’ ‘ magari “umanitariamente” costruite (e vendute) proprio da qualcuno dei paesi che si indignano per cotanto orrore. Se uno di quei bambini, rimasto indenne per puro miracolo, sfuggito alla fame, alle epidemie, alle bombe, agli attentati ed ad ogni sorta di abusi si presentasse alla nostra porta cosa ci sentiremmo di fare? La nostra carità cristiana ci imporrebbe di accoglierlo amorevolmente e rivolgergli tutte le attenzioni e le cure cui ogni bimbo ha diritto, da che mondo è mondo. Ebbene, il nostro paese, che ha partecipato alla “liberazione” dell’Iraq e con le sue esigui strutture umanitarie – la Cri su tutti, presente a Nassirya e altre località dell'Iraq compresa Bagdad dove per mesi ha operato un vero ospedale della CRI con medici militari e infermieri volontari, uomini e donne, fra questi l’ormai famosa Milena Alì dall’Ospedale San Giuseppe di Catania La Alì specialista nella cura delle ustioni sulla carne di tanti bimbi irakeni, arrostita da roghi accidentali o da bombe, ha raggiunto una vera notorietà con un toccante libro sul suo lavoro a Baghdad i cui incassi li ha devoluti tutti in beneficenza per i piccoli irakewni stessi. Instancabili pure gli apporti di “Medici senza frontiere” e di “Emergency”. Ciascuno per la sua parte si prodiga nell’assistenza alla popolazione civile nelle zone in cui hanno operato nostri contingenti militari. Purtroppo, però, il nostro Paese non figura tra le nazioni che hanno accolto i profughi iracheni e la seguente tabella ce ne dà conto. Domande d’asilo di iracheni nei paesi industrializzati, dai dati del 2006 del UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, limitati ai paesi che hanno ricevuto più di 100 domande
Svezia 8.950
Paesi Bassi 2.765
Germania 2.065
Grecia 1.415
Regno Unito 1.305
Novervegia 1.000
Svizzera 815
Belgio 695
Stati Uniti 535
Danimarca 505
Austria 380
Finlandia 225
Irlanda 215
Slovacchia 205
Canada 190
Australia 185
Cipro 130
Francia 115
Allora, invece che elevare barriere di filo spinato o sparare alle ombre che si avvicinano, faremmo meglio a prepararci poiché questa povera gente, che fugge dai tanti drammi che affliggono mezzo pianeta, potrà aumentare. Le guerre che funestano intere aree dei vari continenti non finiscono mai e nuove se ne aggiungono. La siccità e le crisi ambientali continuano a colpire ovunque. Le borse ‘alimentari’ sono drammaticamente crollate e per i paesi più poveri, quelli che fondano i loro magri scambi internazionali sul dollaro, quelli che cercano mais e riso che stranamente (?) si rarefanno in cerca di mete industriali, si affacciano guai sempre più grossi. Rimarranno ancora più poveri e intere zone del pianeta ripercorreranno a ritroso il lento cammino che avevano intrappreso verso lo sviluppo, mentre le loro risorse e materie prime fanno sempre più gola a quel nord del pianeta che persegue folli prospettive di economie fondate sul consumo. Forse qualcuno di noi si meraviglierà nello scoprire che il diamante regalato per l’anniversario frutta a chi sputa l’anima nelle miniere del proprio paese una manciata di manioca e un’autentica fortuna ai distributori internazionali che stanno ad Anversa o Amsterdam. I più radicali eviteranno di acquistare tappeti e vestiti provenienti dall’India o dal Pakistan, confezionati da bambini, interrompendo i loro miseri ma fondamentali guadagni, rendendoli di nuovo schiavi della strada. Ecco che non è assolutamente sufficiente tentare un approccio semplicistico e “fai da te” ma bisogna avviare un lento ma incisivo approccio sistematico alla risoluzione della problematica. Un primo timido approccio politico è stato orientato alla sottoscrizione di accordi con paesi del Mediterraneo volto o incidere sulle cause economiche e sociali dell’emigrazione. Molto di più si dovrà fare in altri campi: magari evitare di vendere armi (lo diciamo malinconicamente ma proprio ci crediamo poco…) ai paesi che non rispettano i diritti umani e favorire in ogni modo gli sforzi della comunità internazionale per facilitare la conciliazione nei paesi in guerra perenne. In ogni caso il ruolo della comunità allargata è assolutamente fondamentale e testimonianza ne è il fatto che, come risultato della pressione dell’opinione pubblica e della susseguente presa di coscienza dei politici, il nostro paese si è trasformato, nell’arco del decennio 1996-2006, da uno fra i principali produttori ed esportatori di mine antiuomo ad uno dei più avanzati paladini nella lotta contro determinati sistemi d’arma. Ma si è mai domandato qualcuno quali e quanti armamenti produce la nostra industria bellica?


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