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Del seguente articolo:

Aprile-Maggio/2009 -
L'acqua, un bene dell'umanità
Sudicie, fetide, lorde e amare acque
Sergio Petiziol - 1° Cap. com. CRI (csg)

Viviamo un mondo occidentale
dove spesso si dice...
“facile come bere un bicchier
d’acqua”...Ma in pochi ci riflettono su

Allo studente fresco di studi, o all’adulto che conserva ricordi di letteratura degli albori, il titolo di questo servizio evocherà a contrario la poesia del Petrarca Chiare, fresche dolci acque, immancabilmente presente nelle antologie scolastiche. Probabilmente, questa è una delle frasi più affettuose dei nostri ricordi scolastici giacché è riuscita nei secoli passati e, anche tuttora, a suscitare sensazioni nette, immediate e piacevoli. L’immagine evocata è così forte e nitida che ci pare persino di sentire il rumore scrosciante dell’acqua che sgorga e scorre fresca e pura fra i declivi della Provenza, così ancestrale e vitale da ispirare uno fra i più grandi poeti occidentali. Bene, allora lasciamo l’ambiente calmo e rilassato delle nostre letture da salotto e proviamo a immedesimarci in una delle migliaia di donne che si occupano dei bambini, degli anziani e dei malati, appartenente a una qualsiasi delle svariate comunità di un desolato luogo, e ve ne sono moltissimi, del nostro bel pianeta. Ecco che alla poetica frase, figlia di reminiscenze occidentali, si adatta molto meglio l’analoga ma capovolta, immagine evocata dal titolo. Immaginiamo vaste aree colpite da siccità pluridecennali o zone aride dove si abbattono repentinamente devastanti temporali che scaraventano giù acqua a tonnellate creando torrenti impetuosi di melma e ramaglie. Pensiamo a ciò che rimane dopo soli pochi giorni di sole cocente: rade, putride pozze, dove gli esseri umani si contendono con gli animali le poche gocce che rimangono. Magri e maleodoranti bacini contaminati da escrementi e urina di svariate specie animali, spesso anche da qualche carogna di bestia assetata, arrivata sfinita a morire al cospetto della tanto agognata salvezza. Pensiamo ancora a pozzi con acqua stagnante, sabbiosa e salmastra perché il mare si sta facendo lentamente strada nel sottosuolo del deserto. In zone poverissime e infelici come l’Eritrea le scarse risorse sono controllate da clan locali e per avere l’acqua bisogna pagare in moneta sonante o in natura. Chi non può permetterselo dovrà lasciar morire i propri animali rinunciando così a una risorsa fondamentale per la stessa sopravvivenza. Per non morire, i molti malcapitati, sono spesso costretti a peregrinare invano e a lungo, odiati e respinti perché compromettono i già precari equilibri locali. Immaginiamo moltissimi “fiumi” dell’Asia o dell’America Latina, vere e proprie cloache a cielo aperto che potrebbero costituire delle impareggiabili palestre per la formazione degli analisti di laboratorio alla ricerca di cospicui ed economici campionari per i loro studi di microbiologia. In innumerevoli zone del pianeta bere acqua senza alcun trattamento significherà contrarre quasi certamente delle terribili malattie causate dai batteri, virus, protozoi e vermi parassitici che la infestano. Microscopiche, brulicanti entità che si sviluppano all’interno del corpo umano, occupandone gli interstizi e usando le vene come autostrade per raggiungere le loro località preferite: gli organi interni o quelli molli. Bambini esangui e adulti stremati giacciono a migliaia in maleodoranti giacigli, dimenticati e lasciati soli con le loro subdole malattie, colpevoli solo di essere costretti a “preferire” l’acqua di fossa a una Cola “on the rocks” con cannuccia di vera paglia. Poi ci scontriamo con il paradosso drammatico. Dove c’è acqua in abbondanza, questa serve a colonie di zanzare anofeli per deporre le loro uova mortali e alimentare quell’interminabile circolo vizioso della malaria, causa di milioni di vittime e getta le madri nella più nera disperazione perché costrette a scegliere a quale dei loro figli concedere il privilegio dell’unica rete antizanzare, e anche questa troppo cara per le loro esangui risorse. Se poi confidiamo che queste malattie si possano debellare con le medicine ci sbagliamo di grosso. I pochi farmaci disponibili sul mercato regolare - o reperibili a prezzi proibitivi alla borsa nera - sono un lusso che solo pochi privilegiati possono permettersi. Molti dei farmaci-solidarietà sono fondi di magazzino scaduti o alterati, eccedenti o invenduti oppure contengono, al pari di molti di quelli prodotti in loco, quantità insufficienti di principio attivo o hanno formulazioni non efficaci. Se in un momento di trasporto accademico volessimo adottare un approccio semantico-antropologico e meditare sul significato di un’espressione metaforica di uso oramai non frequente, ma abbastanza comune, come “facile come bere un bicchiere d’acqua”, ci renderemmo conto di come l’ambiente condiziona la cultura, i significati e i vissuti individuali e collettivi. Nel nostro passato e anche al presente l’azione evocata si presenta assolutamente priva di difficoltà di qualche genere. Certo, ai tempi dei nostri nonni, bisognava andare al pozzo ma poi, una volta procurata un’adeguata scorta, bastava prendere la brocca, posata sul comodino, e versarne il contenuto nel bicchiere e poi lasciasi guidare dall’istinto che, con un gesto inscritto nella nostra memoria genetica, ci placava la sete notturna. Oggi abbiamo acqua corrente in casa a volontà. Troppa. Troppo spreco. Forse l’operazione può essere leggermente complicata dalla “difficoltà” nello scegliere la materia prima della nostra “bevuta”, ossia quale preferire fra le centinaia delle tanto decantate acque minerali italiche in alternativa alla normalissima, banale, vituperata acqua del rubinetto. Oligominerale, leggermente frizzante, micro bollicine o bolle macroscopiche? Ghiacciata o a temperatura ambiente? Eccetera, eccetera, eccetera. Lasciamo a ognuno - reclàme permettendo - la 'libera', scelta... Ci piacerebbe tuttavia che ciascuno meditasse sul paradosso sconvolgente. Se per noi bere un bicchiere d’acqua è proprio facile, non è proprio la stessa cosa per un abitante del Sahel, della depressione della Dancalia o del deserto Kalahari. Per loro il gesto “semplice” può presentare la stessa difficoltà che può avere per noi scalare una montagna: bere un solo bicchiere d’acqua fresca e pura di fonte sarà altrettanto semplice quanto arrivare in vetta al K2. Allora, in un’era “globalizzata” non solo da slogan e frasi fatte, per rispetto all’umanità sofferente anche il nostro lessico quotidiano dovrebbe essere, se non proprio “politically correct”, almeno decente, e dovremo consegnare ai tenaci, ma sicuramente anacronistici, custodi della lingua italiana il compito di mettere “fuori corso” espressioni che non hanno più un significato eticamente né umanamente accettabile. Allora, dopo aver meditato sul reale significato e sulla possibilità di avere acqua fresca tutti i giorni troveremo del tutto naturale e giusto mandare a quel paese coloro che ci chiedono contributi in denaro per inviare latte in polvere o caramelle dietetiche - non è greve ironia, ma fatti realmente accaduti - in paesi colpiti da siccità trentennali. E' invece necessario sostenere tutte quelle piccole ma significative iniziative di solidarietà spontanea, anche locale, volte a fornire alle comunità dei paesi in via di sviluppo di pozzi autogestiti. Gruppi spontanei di cittadini, comunità parrocchiali, organizzazioni sindacali, comitati di quartiere e di fabbrica e decine di altre aggregazioni e ONG realizzano nel loro piccolo, lontano dai riflettori dei media, progetti di solidarietà concreta, operando anche in loco. Così facendo eviteranno, per quanto ciò sia possibile, di ingrassare squallidi intermediari o ungere i soliti ingranaggi di una solidarietà internazionale, non di rado 'pelosa' e interessata. Non cadiamo, però, nella tentazione modernistica di esportare tecnologie all’avanguardia perché se poi dovesse mancare un microchip nel deserto... sarebbero guai.


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