La guerra della Corea imperversava con il Nord contro il Sud. La popolazione era stremata, servivano viveri e sostegno sanitario. La Croce Rossa Internazionale, per fronteggiare la situazione, lanciò un appello a tutte le Società nazionali di Croce Rossa affinchè portassero soccorsi alle popolazioni del territorio coreano devastato dagli scontri a fuoco. L’Italia rispose inviando una missione con un ospedale la cui capacità iniziale era di 150 posti letto, poi elevata a 200, divisi fra chirurgia uomini e donne, medicina uomini e donne e pediatria.
L’organico era di 71 elementi, fra ufficiali, infermiere volontarie, sottufficiali, graduati e militi della Croce rossa italiana per l’assistenza sanitaria e 37 uomini di personale coreano per i servizi. Al comando il capitano medico Luigi Coia, sostituito nel luglio 1952 dal maggiore medico Fabio Pennacchi.
Abbiamo incontrato Sorella Alma Pascutto nella sua casa romana in uno dei più prestigiosi quartieri della capitale, quello dei Parioli. Nel salotto su un piccolo tavolo rotondo, insieme ad altre fotografie, “troneggia” una splendida cornice con l’immagine della Principessa Maria Josè di Piemonte, in uniforme da Ispettrice Nazionale delle Infermiere Volontarie della Croce rossa italiana, con la dedica Per Alma Pascutto e la semplice firma Maria. “Questa è la fotografia che la Principessa mi ha donato subito dopo il conseguimento del diploma di crocerossina”, tiene a precisare Sorella Alma.
La crocerossina centenaria ci accoglie sorseggiando un te da una minuscola tazzina in procellana azzurra finemente decorata da motivi floreali in oro zecchino. Si accorge che la stiamo osservando incusiositi, anche affascinati dallo splendore del sia pur piccolo oggetto. Sorride e inizia la conversazione narrando proprio la storia di quella tazzina e per rispondere alla nostra curiosità. “Questo è l’unico ‘cimelio’, o meglio, direi, il più prezioso e affettuososo ricordo che ho dai miei anni di permanenza in quel lontanissimo Paese. La comprai, anzi la ‘strappai’ a un antiquario che non voleva assolutamente disfarsene in quanto, asseriva compunto, la tazzina faceva parte di un prezioso servizio appartenuto a un principe della casa reale coreana. Lo tentai con ogni cifra per me possibile ma lui era irremovibile nel suo diniego. Mi venne allora un’idea. Avevo notato che guardava con molta attenzione il mantello della mia divisa, azzurro e bianco. Glie ne chiesi il motivo e mi raccontò che per lui quei due colori facevano parte di una sua storia molto personale. Gli proposi allora un baratto, gli occhi gli si illuminarono e accettò immediatamente: una giubba, per altro molto calda e bella, in cambio di una minuscola, scompagnata ma affascinante tazzina da te. E fu così che me la portai in Italia”.
Alma Pascutto ci aveva accolto in salotto per l’intervista con tutto il suo fascino di nobildonna d’altri tempi: una accurata preparazione per il servizio fotografico, un’acconciatura candida, argentea, fresca di parrucchiere, il rossetto ben disteso sulle labbra, mani curatissime, nessun gioiello, una maglietta turchese, una candida sciarpa finemente ricamata. I suoi occhi azzurri, acuto lo sguardo, trasmettevano una luce che chiedeva dovuta riverenza per la sua importante età.
Come preferisce essere chiamata, signora, signorina o Sorella Pascutto?
Mi chiami semplicemente Alma. Mi potrei definire ‘signorina’ perché non mi sono sposata ma, in cambio - e ne sono felice -per tutta la vita ho sposato la causa della Croce Rossa nei suoi sette principi ma soprattutto nell’aiutare il prossimo e l’umanità sofferente. Ci definiscono ‘Sorelle’ perché le infermiere volontarie, più conosciute come “crocerossine”, usano questo appellativo per eliminare fra loro distinzioni di grado, classe e ceto sociale.
In che anno dunque, Sorella Alma, è partita e quanto tempo è rimasta in Corea?
Sono partita all’inizio della missione, nell’ottobre del 1951 e sono rimasta in zona d’operazioni per circa due anni. Salpammo dal porto di Napoli con la nave da trasporto militare statunitense “General Langfitt”. La nave aveva già imbarcato i militari olandesi, fra cui due loro crocerossine, destinati anche loro in Corea.
Noi Sorelle indossavamo la divisa bianca con la croce rossa sul petto ed il capo coperto dal velo blu.
Dopo due giorni di navigazione mi si avvicinò un tenente americano chiedendomi di che ordine religioso eravamo. Mi disse che aveva discusso molto con i suoi colleghi per cercare di capire la nostra appartenenza. Sentendoci chiamare tra di noi “Sorella” ci aveva scambiato per strane suore, vestite in modo particolare, perché notò che la nostra divisa non aveva la gonna che toccasse terra e le maniche erano corte.
A tal proposito il comandante della nave raccomandò alla nostra capogruppo di non portarci sul ponte principale durante la navigazione, in quanto con il forte vento le gonne si sarebbero sollevate offrendo ai marinai ed agli altri militari uno spettacolo imprevisto.
Quanto è durato il viaggio in nave?
Un mese esatto. Dopo aver attraversato il canale di Suez la nave effettuò vari scali per rifornirsi, senza poter mai scendere a terra.
A Colombo, capitale dell’attuale Sri Lanka, la moglie dell’ambasciatore italiano era salita a bordo per invitarci in Ambasciata. Ciò non ci fu consentito in quanto il comandante della nave asserì che se avesse dato il permesso di scendere a noi Sorelle di Croce rossa, anche gli altri militari avrebbero dovuto avere la stessa opportunità. Siamo rimaste quindi ‘prigioniere’ a bordo fino al nostro arrivo a destinazione: la capitale Seoul.
Al nostro arrivo in Corea, al porto di Pusan, ci accolse la banda militare americana che suonava “Rosamunda”, accompagnata dalle majorette.
A noi donne, le sei Sorelle italiane più le due olandesi, appena sbarcate, hanno anche offerto un mazzo di fiori. Tutto ciò mi colpì molto, perché non pensavo che in un paese in guerra potesse esserci una tale affettuosa accoglienza.
I suoi familiari la lasciarono partire senza problemi per una missione così delicata e lontana?
Mio padre Enrico, purtroppo, era già morto di broncopolmonite. Se fosse stato in vita non mi avrebbe di certo fatta partire. Già all’epoca della guerra in Etiopia avrei voluto frequentare il corso per diventare “crocerossina”. Ma lui non lo permise assolutamente. Non gli piaceva che le donne frequentassero ambienti prettamente maschili. Per tale motivo non mi fece iscrivere nemmeno all’università.
Dopo aver vinto l’iniziale opposizione anche di mia madre Maria Chierini, riuscii finalmente a frequentare il corso biennale in Croce rossa per conseguire il diploma di infermiera volontaria. Lei non approvava le spese per l’acquisto delle divise e per le altre necessità di funzionamento delle crocerossine e asseriva che con i soldi che mi dava per la Croce rossa potevo tranquillamente andare a Cortina d’Ampezzo, a respirare aria pura, e non nelle corsie degli ospedali.
Mio padre e mia madre avevano una mentalità all’antica. Io, avendo superato già da qualche tempo la maggiore età, risposi a mia madre che potevo prendere liberamente la decisione di partire per la Corea.
Ricorda il nome delle Infermiere Volontarie partite con lei?
Certamente. Il nostro gruppo, composto da sei Sorelle, oltre me comprendeva: Caterina Aimini, Maria Luisa Corsi di Bosnasco, Angela Mastromarino, Antonietta Mojana e Anna Maria Rosi, la capogruppo.
Quale è stata la maggiore difficoltà all’arrivo a Seoul?
Un clima rigidissimo con punte minime all’esterno che toccavano i 26 gradi sotto zero. Nella struttura dove alloggiavamo, adibita ad ospedale, l’acqua corrente gelava. Dormivamo tutte in un'unica camera. Sul mio letto erano sistemate otto coperte.
Quando eravamo in servizio indossavamo la nostra gloriosa divisa, non adatta però a quelle temperature. Sopra al camice eravamo costrette ad utilizzare un giaccone color verde militare, donatoci dalle truppe americane.
Fortunatamente, non soffrivo il freddo. Sebbene il clima non fosse affatto clemente non ho avuto un raffreddore né un’influenza, nonostante uscissi sempre dall’ospedale.
L’alimentazione era adeguata per quelle basse temperature?
Il cibo era l’unica cosa che lasciava a desiderare. Veniva servito spesso scatolame. Nello stesso vassoio trovava posto la pasta, la carne e la frutta cotta. Alcune volte il sugo della pastasciutta andava a finire nella frutta cotta e non si riusciva a mangiare né l’una né l’altra. Un giorno riuscii a mangiare alcunché, ero esasperata e allora, insieme alla sorella Maria Luisa Corsi di Bosnasco, andammo al PX americano a Seoul (così erano denominati i supermercati in zona di operazione) per acquistare una scatola di cioccolatini. Quello è stato il nostro pranzo. All’epoca ero magrissima. Avevo timore di non avere le forze sufficienti per resistere ai ritmi frenetici dettati dalle esigenze dell’impegno ospedaliero.
Quale ricordo della missione in Corea affiora sempre più spesso alla sua mente?
Il ricordo più frequente riguarda purtroppo un aspetto negativo: la grande miseria, la fame della popolazione, nei bambini soprattutto. Non si vedeva mai una persona vestita adeguatamente, non oserei davvero dire ‘elegante’. Sempre militari, con le loro uniformi, e la popolazione coreana che, loro malgrado, era malvestita, quasi a livello straccioni, già povera e indebolita ulteriormente dalla guerra.
Un giorno, per tutta rivalsa decidemmo, con le altre sorelle di Croce rossa, di trascorrere qualche giorno a Tokio. Ci siamo messe d’accordo con gli americani per un passaggio aereo nella capitale giapponese. Ci fecero salire su un aereo da trasporto in quanto il potente aeroplano aveva necessità di assistenza tecnica presso le strutture aeroportuali di quella capitale.
Ci imbarcammo in cinque Sorelle, fatta eccezione della capogruppo, sorella Rosi che rimase ad attenderci nella nostra base di Yong Dung Po. La Rosi era una donna molto colta ed educata. Proveniva da un’ottima famiglia. Conosceva perfettamente la lingua inglese. Ma allo stesso modo era semplice, non chiedeva mai niente, le andava bene tutto, compreso il pasto. Noi, al contrario, eravamo un po’ più ... come dire, più discole.
All’arrivo a Tokio, la nostra prima preoccupazione fu quella di stare alla larga dall’Ambasciata italiana, che non sapeva nulla di questo viaggio e della nostra permanenza in città.
Ma allora dove avete alloggiato?
Io avevo sempre avuto una certa preferenza per i grandi alberghi e abbiamo quindi deciso di alloggiare all’Imperial, uno dei più eleganti e costosi hotel di Tokio. Dopo aver visto per più di un anno tanta miseria e povertà in Corea ci siamo concesse questo privilegio.
Arrivammo nel pomeriggio e dopo aver preso possesso delle camere, tutte suite singole con una vasca da bagno grande come una piccola piscina, abbiamo finalmente consumato una buona cena.
La mattina successiva, con le altre Sorelle, ci siamo date appuntamento nella hall dell’albergo per decidere cosa visitare della città.
Eravamo vestite con il gonnellino e la blusa blu, senza segni distintivi di Croce rossa. Una signora presente nella hall, molto distinta e ben vestita, sentiti i nostri dialoghi, si avvicinò chiedendoci se eravamo italiane. Avendo risposto in modo affermativo ci chiese per quale motivo eravamo lì, in quanto in tempo di guerra in Giappone era difficile vedere turisti. Asserimmo che eravamo sorelle di Croce Rossa, e lei ci rimproverò in quanto non eravamo andate a far visita al suo papà: era la figlia dell’Ambasciatore italiano a Tokio, il marchese Blasco de Aieta.
Eravamo disperate, perché fummo subito scoperte. L’ambasciatore, senza dirci nulla al riguardo, con molta eleganza ci invitò a pranzo. Ironizzando sulla nostra ottima sistemazione alberghiera disse: “Però le nostre sorelline si trattano molto bene”. Infatti l’Hotel Imperial, ci dissero poi gli americani, era più caro degli alberghi eleganti di New York: “Noi quando andiamo a Tokio non alloggiamo mai in quella struttura”, concluse.
Spendemmo per l’albergo e per lo shopping fino all’ultimo centesimo dei dollari americani in nostro possesso, perché poi eravamo coscienti della vita che ci aspettava in Corea. Durante la nostra missione non percepivano alcun stipendio, ma solo un’indennità vestiario, pari a circa 200 mila lire al mese, all’epoca abbastanza alta. Sono poi venuta a sapere, a distanza di qualche anno, che le autorità giapponesi decisero di abbattere l’Hotel Imperial. Al suo posto edificarono un grattacielo: una vera assurdità che ha annullato anni di storia scritta da tutti i personaggi celebri che vi hanno soggiornato.
Ma è vero che personale militare della Croce rossa italiana è intervenuto anche in operazioni di soccorso alla popolazione coreana e che esulavano dai normali compiti d’istituto?
Certo, è verissimo! Nel settembre 1952 prestammo soccorso alle 160 vittime del disastro ferroviario avvenuto sulla linea Inchon-Seoul, che ricoverammo tutte nel nostro ospedale. Nel luglio 1953, a seguito di violente inondazioni che colpirono il Giappone, intervenimmo in favore degli alluvionati presso l’isola di Kyushu, inviando due ufficiali medici, due infermiere volontarie e cinque militari di supporto. Tale personale rimase in loco per 24 giorni curando complessivamente circa duemila persone. Nel gennaio 1954 soccorremmo 55 superstiti di un altro incidente ferroviario avvenuto ad O-San, a sud di Suwon.
Quando finì la guerra fra le due Coree?
Dopo tre anni di conflitto le parti belligeranti si accordarono per la cessazione delle ostilità. Il 27 luglio 1953 il maggiore Pennacchi, comandante dell’ospedale di Croce rossa, in qualità di ministro plenipotenziario rappresentò il governo italiano alla cerimonia che si tenne a Panmunjon dove fu firmato l’armistizio fra le forze dell’ONU e quelle cinesi e nordcoreane.
Anche grazie all’impegno in Corea degli uomini e delle donne di Croce rossa per l’opera umanitaria prestata a favore non solo dei militari feriti, ma anche e soprattutto della popolazione civile coreana, l’Italia ha potuto entrare a far parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: il 14 dicembre 1955, infatti, la nostra nazione fu ammessa fra gli stati membri dell’ONU.
Nell’ospedale da campo n. 68 del Corpo Militare della CRI durante il periodo della sua operatività, compreso tra il 12 dicembre 1951 ed il 31 dicembre 1954, furono ricoverati 7.041 degenti e furono eseguite 229.885 prestazioni ambulatoriali.
Dopo quella affascinante e preziosa esperienza coreana cosa ha fatto?
Prima dell’annessione dell’Italia all’ONU, insieme a sorella Angela Mastromarino, feci la domanda per lavorare presso le Nazioni Unite. Si poteva lavorare negli Stati Uniti od essere invitata in un atollo. Ogni anno di servizio ne valeva due. Al termine del rapporto lavorativo si otteneva una buona liquidazione. Feci anche un colloquio, dove risultò buona la mia conoscenza dell’inglese, sia scritto che parlato.
Purtroppo, poiché l’Italia non faceva ancora parte dell’ONU, non potei essere assunta.
Ho cercato quindi lavoro a Roma. Mi sono impiegata presso l’ENPI, l’Ente Nazionale Prevenzione Infortuni, ora sciolto. Gli stipendi erano ottimi. Ricevevo 15 mensilità all’anno più il premio di bilancio, in quanto l’ENPI non era ancora un ente di diritto pubblico.
Sorella, come e dove ha trascorso il suo centesimo compleanno?
Proprio come in tutti gli altri anni: mi sono regalata tre giorni presso un hotel della capitale. Con la mia fidata governante preferisco trascorrere i giorni a cavallo del mio compleanno in albergo.
In questo modo evito le visite e le numerose telefonate di auguri. A maggior ragione quest’anno, che ho superato il traguardo del secolo di vita, ho seguito la stessa regola! Una regola che applicherò per sempre, aggiunge strizzando gli occhi, in un ampio sorriso.
FOTO DI ANDREA NEMIZ
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