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Del seguente articolo:

Marzo - Maggio/2010 -
Mondiali di Calcio
Timori e speranze nel Campionato Mondiale in Africa: spesse folli, scommesse, trucchi, ma a noi basta solo la ‘ola’
Paola Gregory

Siamo nuovamente immersi nel Campionato Mondiale del Calcio, lo sport più popolare non solo nel nostro ma in moltissimi Paesi del mondo. Per riconoscimento unanime, il più bello del mondo. Ma anche il più ricco, per i milioni che si sborsano e si investono per acquisire i giocatori più bravi, per gli ingaggi e gli stipendi. Ma anche per costruire stadi, che spesso sono veri e propri monumenti architettonici, un mix di stile e di tecnica, con tante innovazioni per permettere ai telespettatori, anche a quelli delle “Curve”, i più affezionati e i più calorosi, ma anche i meno danarosi, la visione di ogni zona del campo. Questa grande kermesse, come i campionati nazionali e quelli europei o intercontinentali, avviene in barba alle difficoltà economiche che attraversano le Nazioni, gli Stati, i Popoli, le famiglie e gli operai. In barba alla mancanza di lavoro, all’aumento dei prezzi di tutti i prodotti, a cominciare dai più necessari, gli alimenti, all’inflazione e alla lievitazione delle bollette. Calciatori comprati a prezzi folli da squadre sostenute da magnati dell’industria, prelevati dal Sud America, da quelle fucine che sono il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay, il Cile, adesso più frequentemente dall’Africa, o anche dal Giappone e dall’Australia, fluttuanti all’interno dell’Europa, tra Italia, Spagna, Inghilterra, Germania, Olanda, Russia. Emigranti di lusso. Ma ora ogni selezionatore convoca i suoi da qualunque parte giochino, li vede come perno del proprio team. Calcio che esprime una passione e non solo evasione. Dietro la propria squadra, c’è l’amore per la propria patria, talvolta è distorta, è sciovinismo, è nazionalismo spinto, demodè . Ma si può dire che negli stadi, quali che siano le squadre che si stanno combattendo, nasce uno spirito di fratellanza, di amicizia. Per andare in Sud Africa non si fa conto di rischi annunciati, veri o presenti, di attentati, si fanno sacrifici, si rinuncia ad altro, forse si addossano privazioni alla famiglia. Del resto è stato così sempre. Magari non si mangiava ma si andava allo stadio. E più si è poveri o si vive in paesi poveri, più si cerca un’alternativa alla fame, al bisogno, alle angustie. Oggi chi va in Sud Africa fa ricorso a debiti, a rate. In generale,
magari allo stadio ci si va meno perché sì spesso ci sono le cazzottature e gli scontri. Forse l’attrattiva maggiore sono gli incontri notturni, le trasferte, i match europei e internazionali- E poi ci sono le riprese dirette televisiva. Ma la partita allo stadio ha un fascino ineguagliabile. C’è la gamma infinita dei colori, lo scenario costituito dagli spettatori, i gruppi con le stesse maglie delle rispettive squadre, i volti dipinti, le fogge fantasiose. E poi ci sono le squadre in campo, col grande asso che il volenteroso e rude stopper si ingegna a fermare, il dribbling ubriacante, la volata sulla fascia, i cross, i tiri micidiali, i “siluri” dai tre quarti di campo, la traiettoria imparabile nel “sette”, il tocco fortunoso che accarezza il palo, cui fa riscontro il colpo di reni del portiere, il suo balzo felino, l’uscita coraggiosa, la respinta di pungo. E’ un grande teatro il calcio, dove ognuno si sente protagonista. Gli spettatori lo interpretano con le urla, le grida di incitamento, i fischi. E poi la ola. Io non so chi ha inventato la ola. So che a un certo punto in un certo punto dello stadio si vede uno svolazzo, un silenzioso frusciare, come di migliaia di ali, come lo stormire dei passeri che da lontano disegnano figure fantastiche e solo quando sei vicino senti anche il loro stridire e magari ricevi un beneaugurante messaggio in testa. So che quel movimento come le onde del mare o i flutti dell’oceano irresistibilmente si avvicina verso di te e a ogni passo tutti si preparano, ridono, sono felici. Alzano le braccia. E’ un movimento sincrono. E quando sta per arrivare da te, tu l’aspetti, sei pronto. Scatti in piedi, alzi le braccia, ridi. Che genio quello che ha inventato per primo la ola. Ma forse non l’ha inventata nessuno. E’ nata e basta. E’ un rito. Lo si fa e basta. Lo si fa per sentirsi vicini, solidali,fraterni, tutti accomunati, anche se tu sei giallo e io rosso, anche se tu sei italiano e lui francese, quello tedesco e l’altro brasiliano. Anche se si è avversari, se magari o prima o dopo ci si sputa in faccia, si viene alle mani, ci si accoltella. Ecco il calcio fa le sue vittime per la cecità e la foga del tifo. Invece la tensione si dovrebbe vivere allo stadio e basta. E’ vero che tu non vuoi perdere e io voglio vincere. E viceversa. E allora sciogliamo l’ansia. Sciogliamola con la ola. Ci abbracciamo idealmente. Voliamo come uccelli liberi nell’aria. Alcuni tele e radiocronisti non resistono al fascino della ola e invece di raccontare l’azione che si sta svolgendo richiamano l’attenzione dei telespettatori sul fatto che si sta svolgendo la ola come se fosse un’azione di gioco, un respiro corale, una danza. Alcuni criticano come piccine queste osservazioni dei cronisti, come quando una telecamera inquadra una personalità nota, una bel viso di donna, un bambino che si sta succhiando le dita o se le è ficcate nel naso, o indugiano su una foggia originale. Anche questo è spettacolo, anche questo è emozione.
Le squadre di calcio hanno ognuna l’inno. Quando vincono al termine viene suonato e i fans di quella squadra cantano anche loro, come se ci fosse un karaoke. Senti che dicono: siamo un cuore solo. E’ bellissimo. Fosse vero. Ma sul momento piace crederlo. Certo ci sono gli altri. Gli sconfitti. Loro sfilano mogi mogi. Ma alla prossima domenica, in un’altra occasione anche loro canteranno. E saranno per un attimo felici.


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