L’Italia è a rischio di smembrare e perdere uno dei suoi gioielli più preziosi: una scuola pubblica per tutti, una università per tutti, senza distinzione di censo, capace di far fronte alle richieste di un’alta formazione. Analizzando a fondo le norme del ddl di riforma dell’università, attualmente in discussione alle Camere, non è lontano il rischio per un prossimo futuro di una pesante trasformazione nelle scuole che saranno divise per ricchi e per poveri. Pensare di poter avere università pubbliche perfettamente accessibili a tutti, sembra ormai una chimera. L’avvento del privato - incentivato dalle indiscutibili difficoltà economiche in cui è stata ridotta l’istruzione, è da tempo in atto. Le rette di frequenza aumentano progressivamente e diverranno improponibili ai più. Con i tagli previsti vi sarà una riduzione sia del corpo docente che del personale amministrativo. Un attacco alla scuola, questo, che mina alla base quella che dovrebbe essere una ricerca di ampio respiro (verrà cioè sostenuta solo quella in grado di dare un ritorno produttivo in tempi brevi o brevissimi). applicando a tutto tondo la cosiddetta ‘ottimizzazione’ degli studi (così come spesso - con una frase abusata - si recita nel mondo del lavoro. Tutto il comparto dell’istruzione, di ogni ordine e grado (non si pensi che siano sotto mira solo le università ma lo sono anche le scuole medie di ogni ordine e grado, come pure le elementari) sarà appannaggio di un grande business. Industriale, però, non davvero quello culturale con cui il privato si presenta. Eccezion fatta, ovviamente, per le dovute punte d’eccellenza. Di certo, comunque, questa riforma presenterà anche aspetti positivi improntati sulla necessità di cambiare un sistema carico degli sprechi infiniti del passato, di tenaci posizioni corporative purtroppo sempre presenti, come quelle per la progressione delle carriere universitarie. Oggi, nel nome della giustizia, dell’eguaglianza, della semplificazione, questa riforma che maldestramente copre le sue mire, la si vuole sottilmente far passare mettendosi però alla guida di un bulldozer che intende schiacciare in partenza qualsiasi dibattito. Dulcis in fundo alla guida ‘industriale’ dei nuovo complessi universitari, al di sopra di rettori, presidi, direttori di istituti, è previsto un pesante ingresso di manager dal privato con la costituzione di nuovi Consigli di Amministrazione che siano in grado di mantenere efficiente non solo l’ordine finanziario-amministrativo degli istituti, ma anche di incidere sugli indirizzi scientifici. Con il peso determinante, ovviamente di manager presi dall’esterno alla scuola stessa. Si dice che con la crisi in atto non ci possono essere alternative in quanto non vi sono soldi per mantenere a galla l’attuale organizzazione e i tagli si abbattono sempre più, come mannaie. Le scarne risorse disponibili non sono in grado di garantire un buon funzionamento dell’esistente ma - sia ben chiaro - la colpa di questo sfacelo non è davvero di chi studia ma di chi ha portato la scuola a questo sfascio. Non si può negare che l’economia italiana versi in una crisi da profondo rosso Il ministro del tesoro, ha recentemente dichiarato - forse anche in tono provocatorio che con la cultura non si mangia, ma è di pane che si vive, o giù di lì. Per salvare il salvabile, il ministro delle finanze taglia drasticamente dove più facile sembra: sulla pelle, cioè, di chi vorrebbe avere la possibilità di studiare. Certo, è facile osservare per sopravvivere la cultura non basta, ma si è mai domandato il ministro quanto di cultura si cresca? La nostra politica sembra non avere alcuna strategia per il futuro del Paese. Il delitto contro la cultura è il delitto più odioso che ci sia. Forse il peggiore perché priva i giovani di questo prezioso strumento che arricchisce la mente e fa riflettere. Riflettere per raggiungere la capacità di essere critici e, di conseguenza, di essere liberi. A essere maligni, potrebbe essere proprio anche questa una subdola perversione che mira a plasmare chi cresce imbottendolo facilmente di calcio, canzonette, quiz, soap opera e consimili. Nonché di giornali e telegiornali artatamente pilotati. Tanti i pataccari, tanti i gossip. Un vuoto di cultura pauroso E l’attacco ai media - soprattutto i più impegnati - è forse parte di questo sottile disegno a lungo termine. Un’Italia imbolsita priva dei più elementari strumenti della critica. L’Italia universitaria e gli altri paesi europei Non entriamo in merito in questa sede di come stiano cambiando lo status e i programmi di medie, superiori e anche elementari. Mancano soldi ovunque, precari allontanati, carenza numerica di insegnanti di ruolo, ‘sostegno’ per i deboli sempre più vacillante, tasse per le mense scolastiche e per gli asili nido comunali sempre più in salita. Per non parlare poi della ‘scrematura’ su materie quali, ad esempio, la storia dell’arte: un danno immenso per un paese come il nostro che, con il suo immenso prestigio, attira visitatori da tutto il mondo. Secondo dati recentemente pubblicati, in un confronto fra la scuola pubblica e gli altri 28 paesi comunitari, l’Italia si colloca al quart’ultimo posto. Se non sbagliamo, siamo accanto a Spagna, Portogallo e Malta. La posizione non ci stupisce, e neppure ci indigna. Non tanto per un fatto di cultura in se stesso - questi paesi non meritano certo disprezzo sotto questo punto di vista - ma la dura realtà è che stiamo scivolando verso il basso in compagnia di certi Stati (come Portogallo, Grecia, Spagna, Irlanda) che si trovano ormai dentro, o almeno sull’orlo, di in profondo baratro economico. Dovremmo prendere esempio dalla Germania che, pur impegnata su una finanziaria molto più imponente della nostra, anziché tagliare, ha aumentato (come d’altra parte hanno fatto anche in Francia), le dotazioni per l’università pubblica. La mobilitazione dei ricercatori In questa impari lotta un discorso a parte lo merita la mobilitazione dei ricercatori universitari che difendendo il loro status si è imposta nell’opinione pubblica. Oggi se ne contano circa 26.000 nelle università italiane. Entro una decina d’anni andranno in pensione almeno 30.000 professori di ruolo tra ordinari, associati e ricercatori stessi. Questi ultimi, che da anni insegnano a tempo pieno e tengono in vita un numero immenso di corsi (e anche non del tutto legalmente in quanto il loro ruolo dovrebbe essere mirato solo sulla ricerca, e non sull’attività didattica) supplendo alla carenza di professori associati e ordinari. Se non si riuscirà a rimpiazzarli a breve chi andrà in pensione (assumendo diverse migliaia di ricercatori da immettere nella docenza, l’università pubblica è destinata a ridimensionarsi. Forse anche scomparire, sia pur in un lungo termine. Stesso risultato se i ricercatori non verranno progressivamente rimpiazzati dall’interno, sia con gli avanzamenti delle carriere che con la sistemazione dei precari. Per salvare dunque l’università, nella endemica mancanza di fondi, sarà il privato a subentrare graziosamente con nuove regole imprenditoriali, ancor prima che culturali. Solo chi economicamente potrà, avrà quindi la sua laurea. Di certo, per i ricercatori che non troveranno una loro posizione strutturata all’interno degli Istituti, potrebbe aprirsi - suggerisce la legge di riforma - qualche possibilità di concorsi per titoli nella P.A. ! Chi non ce la farà invece a trovare un suo spazio con la riforma, in capo a sei anni perderebbe ogni diritto e poi, solo le porte di un lavoro esterno, ovviamente sottoqualificato. In questa carenza di docenti, sarà certo sicura l’assunzione diretta di professori esterni al corpo accademico. Passando ai cosiddetti ‘numeri’ nei tagli previsti dal governo, nel triennio 2009-2019 si avranno 7,8 miliardi in meno, 87.000 saranno gli insegnanti che non avranno più il lavoro, e lo perderanno anche 45 mila impiegati non docenti. In tutto ciò s’innalzerà pure il debito dello Stato nei confronti delle scuole che toccherà i 700 milioni di euro. I tagli previsti oggi nel fondo per il finanziamento ordinario delle università sono i seguenti: per il 2020 tagli previsti per 279 milioni di euro e per il 2011-2012 previsti altri 1,4 mld. In un doveroso confronto degli investimenti nella ricerca, prendendo i dati dell’Associazione europea delle università pubbliche, la Germania vi ha destinato 2,7 mld, nel triennio 2012-2015, mentre l’Italia, per lo stesso periodo, ha tolto il 10% dai fondi delle università pubbliche. Guardando sempre verso la Germania osserviamo che il governo tedesco ha tagliato le spese innanzitutto sugli armamenti e poi anche su tante spese superflue. Noi, con una finanziaria da 24 mld, aspireremmo invece a investirne una trentina in armamenti per l'acquisto di caccia bombardieri, elicotteri e altro da combattimento. A conclusione di questa brevissima analisi non abbiamo volute toccare - e non riusciamo neanche a capirlo per la crisi in cui versiamo - con quali soldi la riforma dovrebbe trovare la sua copertura. Impostata sul rigore finanziario, se dovesse passare così come è anche alla Camera, la nuova legge avrà ovviamente necessità di un’altrettanto limpida e chiara copertura. Oggi, non sembra che ci sia. Per ora, il progetto è passato al Senato. Alla Camera, si vedrà.
|