Le ricerche sul clima hanno conosciuto negli ultimi decenni una crescita esponenziale, come pure i finanziamenti ad esse dedicati che attualmente, a livello mondiale, superano i tre miliardi di dollari. Sullo studio degli eventi climatici si concentrano le agenzie dell'ONU e organismi scientifici internazionali come il WMO, l'UNEP, l'ICSU.
Lo scopo di queste attività è l'approfondimento delle conoscenze al fine di realizzare previsioni più attendibili e ridurre rischi e danni derivanti dal cambiamento climatico: per i ricercatori si tratta di una della sfide più complesse ed affascinanti, a cui non si è sottratto il CNR, che nel settore vanta una lunga tradizione, iniziata sin dalla sua nascita con la presidenza di Guglielmo Marconi e rinnovata nel tempo con la creazione di numerosi Istituti, il varo di programmi finalizzati e strategici, la creazione del Dipartimento Terra e Ambiente (DTA), il maggiore dell'Ente (circa 20% delle risorse finanziarie e di personale). Nel quadro più generale degli studi sul clima, il CNR ha raccolto in forma sintetica le ricerche più recenti e in corso svolte dall'Ente, spesso in collaborazione con Università, altri Enti di ricerca, Istituzioni pubbliche e imprese. Il volume che le raccoglie, curato dal DTA, comprende 205 contributi realizzati da circa 500 ricercatori e tecnici afferenti a 24 Istituti, ed è articolato in sette capitoli che coprono tutte le tematiche climatologiche: modelli, impatto dei cambiamenti, ricostruzione dei climi del passato, metodi di osservazione e misura, processi fisici e chimici, valutazioni socio-economiche, rischi e mitigazione.
"Nel volume - spiega il direttore del DTA del CNR, Giuseppe Cavarretta - fornisce una rassegna dei risultati ottenuti dal CNR, sia sulle problematiche generali tuttora aperte, sia sugli effetti locali dei cambiamenti climatici. Pubblicando questa collettanea anche su web sul sito www.dta.cnr.it, vogliamo rendere fruibili i risultati dagli organismi istituzionali e dal grande pubblico, che su questi problemi dimostra una sensibilità crescente".
Il 'warming' italiano è maggiore di quello 'global'
(Ricerche di T. Nanni, M. Brunetti, M. Maugeri,
dell'Istituto di Scienze dell'Atmosfera e del Clima (CNR,
Bologna) e dell'Istituto di fisica generale applicata,
Università di Milano (t.nanni@isac.cnr.it)
Negli studi sul clima un capitolo importante, per chiarire quale possa essere il peso della variabilità naturale nell'attuale trend, è rappresentato dallo studio della variabilità climatica su periodi di tempo brevi (variabilità interannuale e/o interdecadale), che può essere collegata all'azione di forzanti naturali quali il ciclo solare, l'oscillazione Nord-Atlantica (NAO), El Niño e l'oscillazione meridionale (ENSO). In Italia, dove gli strumenti per la misura dei parametri meteorologici sono nati nel diciassettesimo secolo, le serie secolari di dati sono numerose, risalendo in alcuni casi alla seconda metà del settecento. Il CNR ha valorizzato questo patrimonio creando, in collaborazione con altri Enti, in primis con l'Ufficio Centrale di Ecologia Agraria (UCEA) del MPAF, un data base con i dati di temperatura e precipitazioni di oltre 100 stazioni, che, distribuite sul territorio nazionale, coprono l'arco di tempo degli ultimi 200 anni circa. Le serie, per essere utilizzate, sono state sottoposte ad un accurato esame per verificarne continuità, affidabilità e omogeneità.
Dai dati forniti dalla banca dati storici sul clima, per quanto riguarda il trend della temperatura, la variazione registrata sul nostro Paese è di un grado centigrado in 100 anni (nel periodo 1865-2003), più alta del valore medio registrato su scala globale, che è 0,74°C/100 anni (dati IPCC dal 1906 al 2005). Molto significativo è l'aumento delle ondate di calore, che è in rilevante crescita: il numero dei giorni "caldi" registrati nei mesi estivi, da giugno a settembre, è passato dal 10% del decennio 1960-70 al 40% del decennio 1990-2000.
Per le precipitazioni la valutazione è più complessa. L'analisi della serie completa di oltre 150 anni indica una leggera variazione, statisticamente non significativa. Se, invece, si considera l'andamento degli ultimi 50-60 anni, l'ammontare delle piogge risulta fortemente ridotto: nell'Italia meridionale piove il 12-13% in meno, in quella settentrionale la diminuzione è compresa tra 8 e 9%. Importante è anche il risultato che riguarda l'andamento giornaliero delle precipitazioni: si registra, infatti, la riduzione degli eventi di precipitazione leggera o moderata (inferiore a 20 millimetri al giorno) e aumento rilevante delle piogge intense o torrenziali (maggiori di 70mm/g). Ciò comporta per l'Italia una doppia penalizzazione: diminuisce la risorsa acqua ed aumentano gli eventi estremi che provocano alluvioni, esondazioni, frane, smottamenti ed altri dissesti idrogeologici.
Eventi estremi di Libeccio a Livorno
Ricerche di A. Scartazza, G. Brugnoni, B. Doronzo, B.
Gozzini, L. Pellegrino, G. Rossini, S. Taddei, F. P. Vaccari,
G. Maracchi , Istituto di Biometeorologia, CNR, Firenze
(a.scartazza@lammamed.rete.toscana.it)
Libecciate record, con velocità del vento che raggiunge o supera 100 km/h, sono eventi che a Livorno si ripetono periodicamente durante il semestre invernale, con una tendenza all'aumento della frequenza e degli eventi di maggiore intensità confermata dall'analisi climatologica dei dati meteorologici storici nell'ultimo decennio del '900 rispetto alla media trentennale. Nei primi cinque anni del XXI secolo, la frequenza è ulteriormente aumentata.
Le variazioni di frequenza e intensità potrebbero essere associate all'incremento della temperatura superficiale del mare (SST) osservato nel Tirreno a partire dagli anni '80. L'incremento delle SST, infatti, aumenta l'evaporazione delle masse d'acqua, favorisce la formazione di intense depressioni ed aumenta il rilascio nell'atmosfera di grandi quantità di energia.
Per verificare quest'ipotesi è stata realizzata un'analisi incrociata tra la variazione della frequenza del Libeccio a Livorno e i valori delle SST del medio-alto Tirreno per differenti periodi stagionali. L'aumento medio di circa il 32% della frequenza del Libeccio in estate, confermato per il primo quinquennio del XXI secolo, durante il quale si registra un ulteriore aumento di circa il 22%, rispecchia infatti l'andamento delle SST. Nell'estate del 2003 (quando la temperatura, con un valore record, è stata di 3°C sopra la media stagionale e la temperatura del Mediterraneo è risultata la più alta degli ultimi tremila anni) sono stati registrati a Livorno episodi di Libeccio molto violenti, con raffiche di 80 e 90 km/h che hanno causato numerosi problemi sia in mare aperto che sulla terraferma. Anche nell'ottobre 2003 le anomalie termiche nel Tirreno settentrionale (con temperature prossime a 26°C) sono risultate associate ad eventi di pioggia molto intensi e a venti che hanno raggiunto i 100 km/h.
Si rileva anche una significativa, eppur debole, relazione positiva tra la media autunnale delle SST e la frequenza del Libeccio durante l'inverno seguente. In particolare, gli anni in cui le SST del mese di novembre hanno mostrato valori medi inferiori a 17°C, la frequenza del Libeccio nell'inverno è scesa ai valori minimi della serie storica. Al contrario, quando le SST medie di novembre hanno superato i 18°C, la frequenza è risultata più elevata.
Riscaldamento delle acque profonde nei laghi italiani
Ricerche di W. Ambrosetti, L. Barbanti e E. A. Carrara, e
dell'Istituto per lo Studio degli Ecosistemi, CNR, Verbania
(w.ambrosetti@ise.cnr.it)
Negli ultimi 50 anni, in particolare dalla metà degli anni '80, la stabilità della massa d'acqua del Lago Maggiore è aumentata sensibilmente e si sono ridotte le profondità raggiunte dal mescolamento convettivo invernale nel momento in cui nel lago viene a formarsi la cosiddetta "massa d'acqua nuova". All'incremento del lavoro necessario alla piena circolazione delle acque, dato l'aumento di temperatura di tutta la colonna d'acqua, si è affiancato un minore effetto destabilizzante invernale esercitato dall'azione delle forze esterne. E' quindi venuta a mancare l'energia necessaria al processo di destratificazione, che è progressivamente diminuito.
Da un'analisi della profondità di rimescolamento osservata nel periodo 1951-2007 risulta che a una ciclicità settennale di eventi di rimescolamento profondo, presente sino al 1970, è succeduto un periodo di ben 36 anni nel quale lo strato mescolato invernale non ha superato i 200 metri di profondità. Da sottolineare peraltro il fatto che la piena circolazione del 1956 è avvenuta con una temperatura dell'acqua su tutta la colonna di 5,8 gradi, mentre nel 1963 è stata di 5,9 °C, nel 1970 di 6,0 °C; nel 2006 il processo è avvenuto a 6,22°C. E' una prima constatazione del fatto che entro tutta la massa d'acqua del Lago Maggiore si è verificato un notevole accumulo di calore dal 1963 al 2006.
Nell'ipolimnio (lo strato più profondo e freddo) è stato individuato uno strato d'acqua che contiene una sorta di 'memoria climatica': il suo andamento mostra cioè variazioni che si adeguano a quelle del clima, permettendo di stabilire il legame tra climate forcing e risposta del lago. L'andamento di questo strato (che favorisce la stagnazione ed il conseguente processo di meromissi: le acque rimangono separate in due strati, quello superiore ricco di ossigeno, quello inferiore che ne è privo) nei Laghi Maggiore, Garda e Orta dal 1963 al 2006 è in continua ascesa con un andamento pressoché identico e con contemporanee variazioni, positive e/o negative, che corrispondono a particolari eventi idrometeorologici. Particolarmente evidenti quelle del 1981, 1991 e 2005, i primi due causati da eccezionali eventi idrologici e la terza da un inverno eccezionalmente freddo. Ma gli stessi trend sono stati riconosciuti nelle memorie climatiche dei laghi di Como e Iseo, in laghi posti nel centro Italia, a nord delle Alpi, nell'ipolimnio del Lago Vittoria (Africa equatoriale) e in laghi australiani. Molte analogie sono state inoltre riscontrate per l'evento invernale del 1981 nel Mediterraneo al di sotto dei 2000 metri di profondità, nonché nel mare della Groenlandia tra 200 e 2000 metri di profondità.
E' da ritenere di conseguenza che i processi idrodinamici che si verificano nelle acque dei corpi lacustri italiani siano dipendenti da situazioni climatiche che si manifestano su ampia scala e che possano essere interpretate nell'ottica di un cambiamento globale attualmente in atto sulla Terra.
Bacino del fiume Arno: aumentano gli eventi alluvio
nali Ricerche di B. Gozzini (1), M. Baldi, G. Maracchi,
F. Meneguzzo, M. Pasqui, F. Piani (1), A. Crisci1, R.
Magno (1), F. Guarnirei (1), L. Genesio (1), G. De
Chiara (1), L. Fibbi (1), F. Marrese(1), B. Mozzanti (2),
G. Menduni (2) 1 Istituto di Biometeorologia, CNR,
Firenze - 2 Autorità di Bacino dell'Arno, Firenze
(b.gozzini@ibimet.cnr.it)
Questo lavoro ha preso in esame i cambiamenti climatici in atto e futuri sul bacino del fiume Arno in relazione al fenomeno climatico del Monsone dell'Africa occidentale.
La precipitazione annuale totale non è cambiata significativamente dal 1950, ma la frequenza dei giorni piovosi è diminuita fino all'inizio degli anni 80, mentre l'intensità giornaliera di pioggia è aumentata in modo significativa durante gli ultimi 30 anni. Gli eventi giornalieri della precipitazione in grado di produrre alluvioni stanno crescendo in frequenza e oggi sono più frequenti di quanto si sia mai verificato negli ultimi 150 anni, come pure sono aumentate le precipitazioni annuali estreme di durata molto breve.
Sono previsti gli aumenti sia delle alluvioni sia dei rischi di siccità sul bacino nel corso dei futuri decenni. Mentre il rischio dell'inondazione sta già aumentando in maniera significativa e si stima possa crescere velocemente nei prossimi anni, il rischio di siccità si è appena affacciato e può portare ad una sfida potenzialmente drammatica per la qualità dell'acqua e la sua disponibilità futura.
Da un punto di vista sinottico, la stagione autunnale si sta modificando verso quella estiva degli ultimi anni. La stagione invernale invece assomiglierà alla stagione attualmente autunnale in termini di frequenza di picco delle tempeste. Le estati diventeranno generalmente più asciutte, intervallate da tempeste di pioggia occasionali intense di durata breve fino a diventare molto asciutte e calde.
Pianosa, un 'pozzo' naturale di CO2.
Il ruolo delle foreste
Ricerche di F. Vaccari, F. Miglietta, G. Maracchi
Istituto di Biometeorologia, CNR, Firenze
(f.vaccari@ibimet.cnr.it) G. Matteucci (1), G. Scarascia-
Mugnozza (2) - 1 Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali
del Medite-raneo, CNR, Rende (Cs) - 2 - Istituto di
Biologia Agro-ambientale e Forestale del CNR, Porano,
Terni, Italia (giorgio.matteucci@isafom.cs.cnr.it)
I suoli, con la loro varietà di copertura vegetale, possono comportarsi come 'pozzi' di CO2 offrendo la possibilità di realizzare sistemi di produzione che incrementino la cattura di CO2 e ne riducano la presenza in atmosfera: un obbiettivo di ricerca, dunque, di primaria importanza. Le attività del CNR su questi aspetti si sono sviluppati lungo due linee di lavoro.
La prima ha riguardato una indagine campione condotta a Pianosa, i cui risultati indicano che l'isola - la cui superficie presenta una notevole varietà di coperture vegetali, dalla macchia mediterranea ad aree coltivate intensamente, da pascoli a pinete a zone di vegetazione spontanea - può essere considerata un 'pozzo' per la CO2, in quanto l'assorbimento supera le emissioni. In media, la quantità di carbonio assorbita per anno è valutata in 2,64 tonnellate di carbonio per ettaro. Pianosa, inserita nel Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano, si presenta quindi come un laboratorio naturale ideale per questi studi: il CNR, attraverso l'attività di nove Istituti e con l'apporto di quattro Università, ha creato il Pianosa Lab dove le ricerche sugli scambi tra suolo ed atmosfera vengono ulteriormente approfondite.
La seconda linea di lavoro riguarda gli esperimenti condotti su alcune foreste, nelle quali sono state installate stazioni di misura finalizzate a valutare la capacità di assorbimento della CO2 da parte delle piante e verificare l'importanza della riforestazione nel contrastare la crescita della concentrazione di CO2 in atmosfera. In particolare sono stati eseguiti esperimenti e vengono effettuati monitoraggi continui su foreste di Pino Laricio, Querce Caducifoglie, Faggi: i risultati indicano che la capacità di assorbimento si aggira sulle 4.0 tC/ha per anno, di cui il 60% va alla massa legnosa ed il 40% al terreno come carbone organico. I valori sono variabili dipendendo da fattori climatici e dal tipo di vegetazione: si tratta, comunque, di valori elevati a livello mondiale e questo indica che le foreste temperate sono molto attive nell'assorbimento della CO2.
Emissioni di gas ad effetto serra di un sistema urbano:
confronto Roma-Firenze Ricerche di A. Matese, B. Gioli,
F. Miglietta, P. Toscano, F.P. Vaccari, A. Zaldei, G.
Maracchi, Istituto di Biometeorologia, CNR, Firenze,
Italia (a.matese@ibimet.cnr.it)
Le aree urbane sono le principali responsabili delle emissioni di gas ad effetto serra del pianeta, nonostante la ridotta area che occupano, ma solo recentemente sono stati realizzati progetti volti al loro monitoraggio utilizzando misure micrometeorologiche. Sono state, ad esempio, confrontate le misure di flusso di anidride carbonica eseguite nel centro di Roma e Firenze. La tecnica usata è la correlazione turbolenta (eddy covariance), che si basa sulla misura ad alta frequenza della componente verticale della velocità del vento e della concentrazione di CO2. Il periodo in cui le due stazioni hanno operato permette di evidenziare i differenti effetti che la tipologia e struttura delle due città hanno sulle emissioni.
Dai risultati emergono le alte emissioni di anidride carbonica in entrambe le città, soprattutto nel periodo invernale. Il trend giornaliero mostra nelle prime ore della mattina i valori più alti, riflettendo l'aumento di volumi di traffico. I risultati della stazione di Roma evidenziano come la città sia una forte sorgente di emissione soprattutto nel periodo invernale, con un surplus in media del 13% rispetto al periodo estivo. Questa differenza dipende in modo evidente dai riscaldamenti domestici, visto che un'analisi dei volumi di traffico (l'altra importante sorgente di emissioni di anidride carbonica) non rileva una marcata stagionalità.
Una significativa relazione è stata trovata confrontando la temperatura media mensile e il flusso di CO2 medio mensile; mentre dall'analisi dei flussi orari di anidride carbonica si notano valori maggiori nei giorni feriali rispetto ai fine settimana, correlati ai diversi volumi di traffico. Il valore più elevato è stato misurato nelle prime ore della mattina, in concomitanza con l'instaurarsi di moti convettivi che trasportano verso l'alto la CO2 accumulata durante la notte negli strati bassi delle strade cittadine e con l'inizio della circolazione di veicoli che si recano al lavoro.
E' possibile notare una leggera differenza tra le due città per quanto concerne il confronto tra i giorni feriali e il fine settimana. A Roma, la riduzione dei flussi nel fine settimana è maggiore del 53% rispetto agli altri giorni della settimana. A Firenze, il decremento non supera mai il 22%. Questo è dovuto in particolare alla differente collocazione delle zone residenziali e commerciali nel centro città. Infatti, ci sono molti più edifici residenziali e maggiori strade trafficate nel centro di Firenze rispetto a Roma, in cui sono prevalenti uffici e edifici commerciali.
Eventi alluvionali, dissesto idrogeologico e trend climatico nella Locride - O. Petrucci (1), M. Polemico (2) 1 Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica, CNR, Cosenza, 2 Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica, CNR, Bari, (o.petrucci@irpi.cnr.it)
Si definisce Evento Alluvionale (EA) l'insorgere simultaneo, a seguito di periodi piovosi, di frane, piene e allagamenti responsabili di danni a beni e/o persone. L'analisi applicata alla Locride (Calabria SE, un'area di 686 km2) si basa su 24 EA verificatisi in 80 anni e mostra che tendenzialmente gli eventi non presentano una maggiore ricorrenza e che l'area colpita si riduce nel caso di eventi di rara eccezionalità.
Gli EA si distribuiscono da ottobre ad aprile. Ottobre e novembre totalizzano il massimo numero di dissesti, di cui il 40% sono frane. Circa il 40% dell'area mostra una densità di frane omogenea, pari circa al valore medio per l'intera area. Le piene si addensano nelle zone costiere, dove gli elementi più vulnerabili sono i ponti e gli insediamenti abitativi. Sia per le frane che per le piene, la densità maggiore si registra nelle aree più antropizzate, ove l'impatto dei fenomeni genera più danni che nell'entroterra disabitato.
Bassi intervalli di ricorrenza delle frane (6-18 anni) caratterizzano le zone montane e in totale il 60% dell'area. Basso è anche il periodo di ricorrenza delle piene nei due maggiori bacini (Torbido e Bonamico), inclusi i settori interni ove gli eventi danneggiano alcuni abitati. Gli allagamenti sono diffusi in pianura: l'83% dell'area considerata è stata colpita almeno una volta da tale tipo di fenomeni.
Se si considerano anni con più di 10 EA il trend, validato con il test Mann-Kendall, indica un calo del 20% nel periodo di studio (circa 80 anni). Valori elevati si osservano fra il 1954 e il 1963; dal 1987 i valori sono molto bassi, ma il calo è sottostimato per le lacune di dati sugli EA della prima parte del '900. Si può quindi avanzare l'ipotesi che il calo pluviometrico possa aver contribuito alla riduzione degli EA.
Possibile aumento della frequenza di grandine in Toscana
e nel centro Italia - Ricerche di F. Piani (1,2), A.Crisci
(1), G. De Chiara (1), G. Maracchi (1), F. Meneguzzo (1),
M. Pasqui (1) - 1 Istituto di Biometeorologia, CNR,
Firenze - 2 Laboratorio per la Meteorologia e
Modellistica Ambientale, Firenze
(piani@lamma.rete.toscana.it , f.piani@ibimet.cnr.it)
I danni da eventi atmosferici estremi sono drammaticamente aumentati negli ultimi anni, causando un aumento dei costi per agricoltori, industrie, compagnie assicuratrici, enti locali. Le rianalisi NCEP-NCAR, con risoluzione 2.5 gradi di latitudine e longitudine, sono state usate per identificare delle forzanti da cui ricavare relazioni statistiche per prevedere la frequenza delle grandinate.
Da questa analisi risulta una adeguata rappresentazione dei trend passati, dimostrando un aumento significativo nella frequenza di eventi di grandine. Anche gli scenari climatici hanno mostrato un soddisfacente accordo con i dati delle rianalisi, facendo concludere che la probabilità annuale di occorrenza di eventi di grandine sembra crescere nel prossimo futuro. In particolare, l'occorrenza sembra aumentare specialmente in primavera, anche se con un tasso inferiore rispetto a quello osservato negli ultimi anni. In estate, a fronte di un recente aumento a partire dalla seconda metà degli anni 70 del '900, si prevede un andamento sostanzialmente stazionario; in autunno l'accordo tra i dati dei due diversi datasets non sembra, invece, garantire un adeguato grado di affidabilità.
Occorre sottolineare che questi risultati devono essere considerati con cautela per diverse ragioni. La frequenza di eventi di grandine nel passato è stata ottenuta a partire da relazioni statistiche basate sulle rianalisi e calibrate su un campione di osservazioni piuttosto limitato, a causa della mancanza di dati a riguardo. Un altro ulteriore elemento di incertezza è dato dalla risoluzione piuttosto grossolana dei dati utilizzati per le proiezioni nel futuro.
Fluttuazioni nel livello del mare della Laguna di Venezia
Ricerche di: S. Donnici (1), A. D. Albani, A. Bergamasco ,
L. Carbognin, S. Carniel, M. Sclavo (1), R. Serandrei-
Barbero (1) - 1 Istituto di Scienze Marine, CNR, Venezia -
2 School of Biological, Earth and Environmental
Sciences, University of New South Wales, Sydney, 2052
NSW, Australia (s.donnici@ismar.cnr.it)
L'analisi del livello medio mare dell'ultimo secolo relativo all'Alto Adriatico, pur confermando il trend crescente globale, mette in evidenza l'esistenza di oscillazioni.
A partire dalla fine del XIX secolo si registra una generale tendenza al riscaldamento e, in corrispondenza, una crescita del livello medio del mare. Nell'Adriatico settentrionale, dal 1896 al 2000, il tasso medio di crescita del livello marino, escludendo l'effetto della subsidenza (il movimento di abbassamento verticale della superficie terrestre), è stato calcolato in 1,15 mm/anno.
All'interno del secolo considerato si individuano poi oscillazioni dei valori di livello per intervalli temporali brevi, che forniscono valori di crescita significativamente diversi: meno 0,8 mm/anno dal 1971 al 1993, un deciso incremento in risalita di 3,3 mm/anno dal 1994 al 2000, una nuova fase di diminuzione di 8 mm annui dal 2001 al 2005.
Ne emerge come, per avere una indicazione di trend attendibile, si debba necessariamente disporre di serie storiche secolari.
Valutazione dei trend pluviometrici in Calabria
Ricerche di: G. Buttafuoco (1), T. Calmiero (2), R.
Coscarelli (3) - 1 Istituto per i Sistemi Agricoli e
Forestali, CNR, Cosenza, Rende (Cosenza) - 2
Dipartimento Ingegneria Idraulica, Ambientale,
Infrastrutture Viarie, Rilevamento, Politecnico di Milano
- 3 Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeo-logica,
CNR, CS Rende (CS) (g.buttafuoco@isafom.cnr.it)
Sono state analizzate le serie storiche pluviometriche registrate in Calabria tra il 1916 ed il 2000. I dati hanno rilevato in generale un'estrema variabilità delle precipitazioni, significativi trend negativi per le precipitazioni annue, invernali e autunnali, un trend positivo per le precipitazioni estive.
Le ricerche hanno riguardato inizialmente le serie storiche registrate nel bacino del Fiume Crati, il più grande della Calabria: sono state utilizzate le 21 serie con un sufficiente numero di anni d'osservazione (più di 30 anni) e continuità nell'acquisizione dei dati fino al 2000. Le analisi hanno in parte confermato una diminuzione nel tempo della media delle precipitazioni e del numero di giorni piovosi.
Estendendo l'analisi all'intera regione, sono state utilizzate 109 serie storiche pluviometriche con una densità media di una stazione ogni 138 km2 e un numero minimo di 50 anni di osservazione, un minimo di cinque anni di osservazione nel decennio 1991-2000 e un minimo di tre anni nel quinquennio 1996-2000. Ne è risultato un generale trend negativo per le precipitazioni annue (99 stazioni su 109), per le precipitazioni invernali (102 stazioni), autunnali (101 stazioni), primaverili (102 stazioni) e relative al semestre autunno-invernale (102 stazioni). Un generale trend positivo è stato rilevato invece per le precipitazioni estive (90 stazioni su 109), mentre per le precipitazioni relative al semestre primavera-estate (49 stazioni) mostrano un trend negativo e 60 positivo.
Il calcolo ha permesso di identificare aree, quasi sempre localizzate lungo la fascia ionica, con una differenza negativa più o meno marcata rispetto alla media, e zone, ricadenti nell'area più meridionale dell'Appennino Calabrese e lungo la fascia settentrionale della Catena Costiera, con scostamenti positivi anche di un certo rilievo. Inoltre, l'analisi ha evidenziato, nonostante il trend negativo della media decennale, che nel periodo 1991-2000 la superficie di territorio che ha ricevuto un valore di precipitazione inferiore alla media annua si è ridotta rispetto ai decenni precedenti.
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