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Del seguente articolo:

Luglio-Settembre/2011 -
Volontariato
Welfare statale in agonia: dal 44° rapporto del Censis, il volontariato come rete d’emergenza
Lorenzo Baldarelli

Il settore legato al sociale rappresenta un potenziale umano
ed economico ancora da sviluppare appieno, questo sviluppo
è strettamente vincolato alla presenza di una rete di istituzioni
e di uno Stato che come primo attore di welfare coordini
e sostenga l’opera di tutte quelle persone che contribuiscono
al benessere della comunità. Il mondo del volontariato
ha bisogno anche di fondi garantiti e di un clima, tra le varie
associazioni, che non rasenti la competitività per contendersi finanziamenti e risorse


L’anno trascorso è stato dominato dal persistere della crisi sul comparto sociale e occupazionale, ha risentirne, nel breve periodo, è l’intero sistema degli ammortizzatori sociali che viene sottoposto ad una pressione immane. Quello che sta succedendo era facilmente prevedibile: «le contraddizioni strutturali - come illustrato nel 44° rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese -, dall’asimmetria tra domanda e offerta alle difficoltà di finanziamento, si vanno intrecciando con le attuali difficoltà che, in pratica, stanno ampliando il bacino dei soggetti fragili e dei bisogni di copertura». Non è un caso che le iniziative che fanno capo alle politiche di welfare, a livello centrale come locale, si concretizzino in aiuti elargiti per sopperire alle carenze di reddito di «singoli o famiglie legate all’improvvisa perdita del lavoro da parte di uno o più membri». La risposta dello Stato a questo improvviso innalzamento della richiesta di tutela si è manifestata ricorrendo agli ammortizzatori sociali di stampo classico (come la cassa integrazione guadagni), nonché ampliando lo spettro di figure lavorative e contrattuali che a questi ricorrono. Se questa sorta di tamponamento sociale è stato efficace nell’immediato, e quindi sostanzialmente positivo, bisognerà attendere gli effetti sul medio e lungo periodo, con il loro inevitabile carico di disagio sociale, che renderà evidenti le già citate «contraddizioni strutturali del welfare», a cominciare dalla asimmetria quali-quantitativa tra offerta di tutela e composizione della domanda sociale. Ma tamponare non significa curare e, se si osserva il comportamento del governo dal 2009 ad oggi, si avrà chiara l’immagine dell’arretramento istituzionale nei confronti di un welfare sempre più povero e in difficoltà. Nel 2009 il governo Berlusconi ha stornato circa 8 miliardi di euro dai fondi europei, in maggioranza destinati alla formazione e alla scuola, per dirottarli a finanziare la cassa integrazione in deroga pagata dalle regioni. Il risultato è stato di garantire si un po’ più di Cassa Integrazione ai lavoratori delle imprese in ristrutturazione, ma al costo di ridurre i finanziamenti all’istruzione e favorire il più grande processo di licenziamento di precari dalla scuola dal dopoguerra ad oggi. L’anno successivo ci si è resi conto della provvisorietà di questi aiuti con l’entrata in vigore della manovra finanziaria per il 2010 che prevedeva una dose massiccia di tagli ai fondi per gli enti locali e al welfare. Vale la pena citarli per rendersi conto dell’entità dei tagli in questione: riduzione complessiva di dieci milioni di euro dei contributi in favore delle comunità montane e dei piccoli comuni; riduzione del contributo ordinario di base agli enti locali per gli anni 2010, 2011 e 2012 in misura pari a 1,5 e 7 milioni di euro per le provincie e a 12, 86 e 118 milioni per i comuni; riduzione del 20 per cento del numero dei consiglieri comunali e riduzione del numero massimo degli assessori comunali e provinciali; obbligo per i Comuni di sopprimere l’istituto del difensore civico, le circoscrizioni di decentramento amministrativo, direttore generale; i consorzi di funzioni tra enti locali. Sono in molti a chiedersi quali servizi, e quindi quali fasce deboli, soffriranno di più. Se lo chiedono gli utenti e le loro famiglie, ma se lo chiede anche il terzo settore e in esso il volontariato, chiamato a rispondere ad aspettative sempre maggiori, soprattutto da parte delle amministrazioni locali che non sanno più come rispondere ai bisogni, ma nello stesso tempo trattato come una Cenerentola, che può solo eseguire senza mai alzare la testa e dire la sua. Che ci fosse bisogno di tagli è indiscutibile, ma la manovra finanziaria 2010 taglia le gambe agli enti locali. Troppo spesso ci si dimentica che le autonomie locali, e i comuni in particolare, sono oggi più che mai il vero crocevia del cambiamento e lo snodo istituzionale da cui costruire il nuovo modello di stato sociale, laddove il nome Stato va sempre più perdendo la sua accezione di stato-apparato, modello burocratico pesante e spesso inefficiente di erogazione di servizi, per abbracciare l’accezione più ampia di stato comunità, soggetto complesso ed allargato al protagonismo dei cittadini, alle loro articolazioni sociali, al mondo del terzo settore e del volontariato. «Nella crisi - ci spiega il rapporto Censis - si è evidenziato una volta di più che la rete di tutela, il set di servizi e interventi che vengono erogati, dipende solo in parte dal pubblico, perché sempre più decisivo è lo spazio occupato dai soggetti dell’economia sociale, a cominciare dal volontariato, che dalla sanità al sociosanitario alla lotta alla povertà sono protagonisti di primo piano, capaci di garantire appunto quella flessibilità della tutela che sola è in grado di dare risposte efficaci ai bisogni». Il problema è che questo ruolo di supplenza che di fatto il volontariato, l’associazionismo e il non profit sono chiamati ad adempiere, coadiuvati in questo da strategie individuali e familiari sempre più schiacciate sul fronte della delega totale alla famiglia, rischia di non bastare più e questo per un insieme di fattori. Due fra tutti: la dinamica crescente del disagio sociale accelerata dalla crisi e, conseguentemente, la sovraesposizione crescente dei soggetti più fragili ai pericoli che un depotenziamento qualitativo dell’offerta di assistenza porta inevitabilmente con se. «Il volontariato, con gli altri due pilastri dell’economia sociale, vale a dire il non profit e l’associazionismo, rappresenta una realtà vitale sempre più decisiva sia per il welfare che per altri settori, come la protezione civile e lo sport». L’esempio di Sandro Usai I fatti recenti dell’alluvione nella Lunigiana hanno mostrato le potenzialità del volontariato locale: qualche centinaio di persone hanno operato, e stanno operando in questo momento, tra Aulla e i paesi limitrofi sfornando più di 1500 pasti al giorno, rimuovendo fango e detriti da scantinati e parcheggi interrati. Nel comune di Zeri è stato effettuato il ripristino di un impianto per la potabilizzazione delle acque messo fuori uso da una frana, la provincia ovviamente ha messo a disposizione personale e risorse (tecnici specializzati e mezzi movimento terra). Sandro Usai, una delle dieci vittime dell’alluvione, stava svolgendo la sua attività di volontario quando è stato trascinato via dal fiume di fango e detriti; la cosa ha avuto una eco mediatica impressionante scatenando un’ondata di commozione nell’opinione pubblica e nelle istituzioni, al punto che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto commemorare il suo sacrificio con una medaglia al valore civile consegnata con procedimento d’urgenza. I dati Censis sono quindi confermati dall’efficienza e dalla prontezza con cui la società civile si organizza e reagisce agli, ormai troppo frequenti, disastri ambientali che affliggono il nostro paese dimostrando, e confermando ancora una volta, come la logica del dono e la relazione di mutuo soccorso siano delle qualità precipue e, direi, innate della natura umana. Ma ancora una volta è importante rifarsi ai dati numerici per rendersi come il fenomeno del volontariato sia diffuso in maniera capillare nel tessuto sociale, e ancora una volta i dati Censis ci vengono in aiuto. Le stime parlano chiaro: «oltre il 26% degli italiani dichiara di svolgere attività di volontariato, che sia all’interno di realtà organizzate o in modo spontaneo, informale; la scelta di fare volontariato è molto più radicata tra i giovani, tra i quali supera il 34% degli intervistati, rimane superiore al 29% tra i 30-40enni, per poi calare al 23% tra i 45-64enni e al 20,3% tra gli anziani». Un dato significativo è che un quarto dei volontari lo fa in maniera informale, cioè senza essere inclusi nel computo riguardante le organizzazioni di volontariato propriamente dette, ed è nel sud del paese che queste manifestazioni spontanee raggiungono il loro picco. E se tre quarti del totale dichiarano di dedicarsi al proprio impegno con regolarità non va sottovalutato il restante 25% dei censiti che esprimono il loro altruismo saltuariamente. Emerge insomma un fenomeno sociale di dimensioni decisamente più importanti di quello che appare se si tiene conto esclusivamente delle sue parti organizzate e strutturate, è un mondo complesso che produce servizi e interventi e promuove coesione e relazionalità comunitaria. Riccardo Andreini, responsabile Settore Formazione e Progettazione della Cesvot, associazione che si occupa del volontariato nella regione Toscana, è impegnato nel settore da anni e ci tiene a sottolineare gli aspetti etici ed educativi del volontariato: «la formazione nel volontariato coinvolge naturalmente le persone, di tutte le età esse siano, qualunque abilità di base esse possiedano. Il volontariato è costituzionalmente un luogo privilegiato di apprendimento. È addirittura un sistema di formazione in sé. In seno al volontariato organizzato si sviluppano, infatti, tutta una serie di competenze chiave per la cittadinanza, da quelle relazionali a quelle utili a lavorare in gruppo, a quelle analitiche e di soluzione dei problemi, a quelle di aiuto e promozione sociale». Puro altruismo o ragioni ideali ed etiche sono quindi le motivazioni principali che spingono le persone ad impegnarsi in quest’attività ma non sono le uniche. Il dato più importante da tenere sempre presente è che il 59% fa una cosa a cui crede profondamente e dalla quale si sente gratificato. Basta passare mezza giornata in un qualsiasi reparto ospedaliero di un qualsiasi istituto della capitale per rendersene conto. L’Amso è un’associazione fondata nel ’68 dai coniugi Fulvia e Renato Gualino e si occupa di assitenza sanitaria negli istituti oncologici; a Roma è presente al Regina Elena ormai da anni. I volontari di quest’associazione sono formati tramite dei corsi teorico/pratici e dei cicli di conferenze, hanno competenze mediche, tecnico-pratiche, amministrative; sono debitamente preparati e diplomati, ma la cosa in cui sono veramente esperti è l’attività di couseling psicologico. I degenti degli istituti oncologici solitamente hanno una storia clinica lunga e travagliata, molti convivono con le malattie da anni e molto raramente i medici instaurano un rapporto empatico con i propri pazienti; in questo contesto la vicinanza di una persona, di un supporto psicologico e morale, è fondamentale. I volontari della Amso, come quelli di altre associazioni di questo tipo, assolvono questo compito con passione e per passione, visto che non sono retribuiti. Bisogna anche aggiungere che molti volontari di questa associazione vengono da esperienze dirette con patologie neoplasiche, la domanda allora sorge spontanea: chi meglio di loro può condividere lo stato d’animo dei pazienti? Il progetto di legge C41 Grazie a questa «cultura dell’operare centrata sulla relazione, sul rapporto con gli altri, dove la soggettività di chi fa volontariato trova gratificazione nella relazione con l’altro che ha bisogno», si è raggiunto quello che forse è il più grande risultato del volontariato, «vale a dire la capacità di dare visibilità a problematiche e soggetti in difficoltà che altrimenti sarebbero rimasti sommersi, avvolti dall’opacità sociale». Nella crisi attuale il volontariato è costretto a fronteggiarsi con un numero sempre più crescente di soggetti in difficoltà con delle risorse che diventano ogni giorno più esigue. A questo proposito è interessante conoscere il progetto di legge C41: “disposizioni in favore dei territori di montagna” che contiene proposte di modifica alla legge sul volontariato (266/91) deleterie per il volontariato stesso, togliendoli risorse, ma soprattutto negandogli un’identità autonoma. Sostanzialmente con questo Pdl si voleva recuperare un po’ di fondi che, dopo i drastici tagli che la finanziaria 2010 ha imposto alle comunità montane, gli estensori del progetto hanno pesato di toglierli al volontariato. Più specificamente, il Pdl C41 propone di cambiare l’art. 12 della 266/91: quello che istituisce l’Osservatorio nazionale e specifica, tra l’altro, che tra i suoi compiti c’è quello di approvare progetti sperimentali «per far fronte alle emergenze sociali e favorire l’applicazione di metodologie di intervento particolarmente avanzate». Il Pdl C41 propone di allargare le finalità, includendo «interventi nei territori montani e nelle altre aree territorialmente marginali del paese». Attualmente le organizzazioni di volontariato iscritte ai registri regionali sono circa 40mila, quelle che potrebbero partecipare ai bandi se il Pdl fosse approvato, sarebbero un numero indefinito e indefinibile oltre che eterogeneo: quali criteri verrebbero adottati nella definizione dei bandi, per non escludere un soggetto o l’altro? In che modo sarà possibile fare le selezioni tra un numero di progetti potenzialmente enorme? Ancora più preoccupante è il modo in cui si vuole cambiare l’art. 15 della 266/91, quello in base al quale le fondazioni bancarie devono destinare una quota non inferiore ad un quindicesimo dei propri proventi per la «costituzione di fondi speciali presso le Regioni al fine di istituire, per il tramite degli enti locali, centri di servizio a disposizione delle organizzazioni di volontariato, e da queste gestiti, con la funzione di sostenerne e qualificarne l’attività». La proposta del Pdl C41 è, ancora una volta di allargare la platea degli utenti, affiancando alle organizzazioni di volontariato le realtà «delle associazioni sportive dilettantistiche, delle associazioni bandistiche, dei cori amatoriali, delle filodrammatiche, delle associazioni dilettantistiche di musica e danza popolare, delle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, e successive modificazioni, nonché delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus)». In questo modo non solo si allarga smisuratamente la platea dei fruitori, ma si allarga anche la governance stessa dei Centri di servizio, nei quali, ovviamente, i nuovi soggetti dovrebbero essere in qualche modo rappresentati. E probabilmente tutto questo aumenterebbe il peso degli enti locali in confronto a quello del volontariato. Con questo cambiamento, inoltre, di fatto si nega quello che la 266/91 finalmente riconosceva, cioè che il volontariato (che attualmente si calcola abbia 40000 organizzazioni, tra iscritte e non iscritte ai registri) ha un’identità propria e una propria specificità nelle modalità di intervento sociale, e che per questo è importante e va riconosciuto in quanto tale, e non solo come una nebulosa indefinibile costituita da persone di buona volontà che, poiché sono disposte a spendersi gratuitamente, sono utili a tenere bassi i costi dei servizi pubblici o del terzo settore sono importanti e hanno un proprio ruolo, ma esistono altri strumenti legislativi per regolarle e per sostenerle. La 266/91 è la legge del volontariato, e davvero si fatica a capire in base a quale logica debba diventare una legge per tutti e per nessuno, e cosa c’entrino i territori montani. Conclusioni A volte promosso a volte osteggiato dai governi, il volontariato ha attraversato indenne le trasformazioni politiche e antropologiche di questo paese. È una storia di traguardi e di insuccessi, di utopie e disillusioni, questa storia l’ha narrata molto bene Giulio Marcon in ‘Le utopie del ben fare’. Nei primi anni del secolo ad esempio, su modelli inglesi, delle personalità eccezionali come Umberto Zanotti-Bianco, Giovanni Cena, Osvaldo Gnocchi Viani e tanti altri avevano organizzato gruppi di intervento nelle campagne per portarvi medicine e sillabari ma anche stimoli all’auto organizzazione e proposte mai in concorrenza con quelle del movimento operaio. Furono vicende ricche d’insegnamento che coinvolsero centinaia di volontari e segnarono lo sviluppo del movimento che, a fasi alterne (la scomparsa, o irreggimentazione, durante il fascismo, il suo rifiorire nel ‘68 e la nascita del volontariato moderno negli anni ’80), ha vissuto al fianco della storia senza cambiarla ma portando avanti la sua lunga marcia attraverso le istituzioni. Goffredo Fofi in una pubblicazione recente ha detto: «è straordinario come nel nostro paese, anche nei momenti di maggior conformismo, si riformino nonostante tutto minoranze attive, gruppi che cercano per strade nuove e antiche (sepolte, da riaprire) di essere, nei limiti del possibile, protagonisti delle proprie scelte e presenti agli altri; a quella parte della popolazione con la quale si ritiene di poter ancora agire insieme o per la quale si ritiene, considerando la sua emarginazione, di poter lavorare».


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