Dopo una adolescenza romana e ribelle, nel 1979 il giovane reporter Roberto Vignoli se ne andò con pochi amici in un casale umbro per fondare una comunità autogestita. L’esperienza agreste e avventurosa durò qualche anno, poi il richiamo della città si rivelò più forte e lui decise di tornare a Roma e cominciò a fotografare le architetture urbane. Da allora non ha mai smesso. Fossero incarichi da grosse agenzie di fotogiornalismo o nascessero da scelta individuale, i suoi lavori a tutt’oggi documentano l’urbanistica di grandi città, da Stoccarda a Istanbul, da Bangkok a Lisbona, da Parigi a Bilbao. A metà degli anni ‘90, senza lasciare le architetture, cominciò a rivolgersi verso altri oggetti del mondo: biciclette, motorini, sedie, fiori, cascate. Questa seconda fase del suo itinerario è caratterizzata da una sorta di doppia ispirazione. Fantasia e foto. Se si pensa che Vignoli ha pubblicato tre libri di narrativa e compone musica (blues e non solo), si capisce di trovarsi di fronte a un uomo che non si accontenta di una sola disciplina, come guidato dalla coscienza della frantumazione della cultura contemporanea e da una sorta di nostalgia di un sapere integrato. Il rischio immanente è quello dell’eclettismo e del conseguente formalismo. La risposta di Vignoli a questo rischio sembra risiedere nell’ossessione conoscitiva. Una volta che ha puntato un oggetto, non lo lascia più. Mira a esaurirne il significato, la carica conturbante, mira a rubargli l’anima. Si potrebbe trarre da questa riflessione una sorta di trattatello sulla fisiologia del fotografo, visto come uno stregone non autorizzato. Da dove nasce questa volontà di appropriazione figurativa? Non c’è una risposta generale. Nel suo caso si intuisce una inquietudine non solo stilistica ma esistenziale, un modo di reagire alla proliferazione inconsulta dei richiami metropolitani. Il Walden degli anni settanta è ancora vivo in lui. Questa ossessione può arrivare fino al gigantismo della produzione più recente, dove Vignoli ricompone pezzo a pezzo, con precisione millimetrica, alcune strade metropolitane, che si trovano così riprodotte per intero in fotografia (quella del Malecon dell’Avana è lunga venti metri). Ed è così che il suo archivio fotografico viene a configurarsi come una mappa inconsueta della contemporaneità. E come tutte le mappe, anche quella di Vignoli contiene un piccolo errore. Il primo racconto di questo volume comincia con un elogio della società olandese in cui l’autore però non si riconosce più, oggi che i Paesi Bassi hanno sposato in permanenza politiche xenofobe e reazionarie (la sua foto camera, però, se n’era accorta, visto che la foto più bella di quel reportage non è stata scattata in Olanda). Il viaggio dei fotoromanzi attraversa l’Europa e arriva fino al Brasile astorico delle cascate di Iguazu, dove Vignoli è spinto a riflettere sul flusso di oblio che ha investito le popolazioni mondiali, in particolare gli italiani (“quando si presentò alle elezioni BenitoMussolini - o uno identico a lui, non importa - nessuno lo riconobbe e diventò un’altra volta capo del governo”). Lo stato di sospensione spazio-temporale deve averlo indotto a caricare la fotocamera con pellicola in bianco e nero scaduta da oltre vent’anni. Questo è l’unico artificio che si è concesso, un artificio inventato da Man Ray, ma che può chiamarsi naturale. “Amavo l’effetto che avevo visto nelle foto di Man Ray – scrive Vignoli - quei grigi malati che invadono i neri e i bianchi, che fanno sentire febbricitante chi guarda la foto stampata sulla carta opaca”. Parole che rivelano il suo amore per il lavoro creativo e dicono l’intensità del suo percorso artistico, in cui i momenti di puro divertimento si alternano a quelli di profonda serietà riflessiva.
*Tratto dalla prefaziione al libro di Vignoli, Edizioni Calliope,
di cui Massimiliano Capati è editore
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