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Del seguente articolo:

Marzo-Aprile-Maggio/2012 -
Scuola e ricerca
E adesso investiamo nella cultura
Paola Gregory


Nelle scarse notizie che fin qui si hanno sui prossimi provvedimenti del governo per la ripresa e lo sviluppo, così come nei rari interventi sul tema da parte dei politici, dei sindacati e degli opinionisti, mentre si parla - assai genericamente per ora - di investimenti in opere pubbliche e grandi infrastrutture, si dimenticano quelle che sono le infrastrutture presupposte da ogni processo di sviluppo economico e civile: la scuola, la ricerca.
La situazione è nota, ma come rimossa quando si parla di piani per la crescita: la scuola è stata umiliata dai cosiddetti tagli lineari dei precedenti governi, le ore di insegnamento, anche per materie fondamentali, diminuite, il reclutamento degli insegnanti tramite concorso bloccato da anni, le strutture edilizie fatiscenti, le biblioteche e i laboratori assenti o inadeguati. La ricerca non ha da tempo risorse sufficienti da utilizzare per la ricerca di base; il Cnr non ha neppure la possibilità di far fronte alle «spese cogenti», di pagare cioè gli affitti, le utenze e persino i buoni pasto: obbligato a reperire i fondi presso i privati (sempre più latitanti) si riduce a fornire consulenze finalizzate agli interessi momentanei dei committenti. Il discorso si potrebbe allargare alla progressiva devastante diminuzione di investimenti nei beni culturali, altra struttura portante del nostro Paese per la sua identità e la sua immagine nel mondo, lasciando che il patrimonio storico e artistico, archivistico e librario vada a pezzi come avviene nelle nostre aree archeologiche.
La cultura, la scuola, la ricerca sembrano beni di lusso senza incidenza sullo sviluppo del Paese che diviene giorno dopo giorno culturalmente più arretrato (preoccupante il fenomeno dell'analfabetismo di ritorno) e marginale nel panorama internazionale della ricerca. Di fatto, per gli investimenti in questi settori, l'Italia è da tempo fuori dal G8, occupando il ventiseiesimo posto su trentaquattro Paesi per la spesa in ricerca (R&D), secondo i dati Ocse. Non è solo l'economia in recessione, lo sono tutte le strutture scolastiche e culturali e forse non è solo un casuale parallelismo. Sicché sembra quasi una battuta da salotto dire che la crisi delle università, il loro provincialismo, potrà essere risolto facendo lezione in inglese e non in italiano, come ritiene qualche autorevole rettore e lo stesso titolare del Dicastero dell'Università.
Si dirà che per rimettere in moto la crescita servono investimenti, difficili nelle attuali ristrettezze di bilancio; né è prevedibile un rapido riordino e riduzione delle spese pubbliche, data l'opacità dei bilanci del Parlamento, dei Ministeri e degli altri enti a partecipazione statale (lo Stato non riesce neppure a sapere con esattezza quanto guadagnano i suoi manager). Tuttavia ho l'impressione che sarebbe possibile - le cifre sono in gran parte note - ridurre subito del 50% le spese per le auto dette di servizio (oltre 1.000 solo a Roma) e i rimborsi delle spese elettorali ai partiti, per destinare tutti i risparmi così realizzati alla scuola e alla ricerca (qui un dirigente costa assai meno di un'auto con relativa scorta): con un'operazione non difficile forse sarebbe posta un'essenziale premessa per la crescita del Paese.
Il Presidente Giorgio Napolitano ha ancor di recente ricordato che «la grande e ineludibile sfida che abbiamo oggi davanti è vedere la politica in Italia sollevarsi dall'impoverimento culturale che ne ha segnato la decadenza»: segno e causa di tale impoverimento è il disinteresse dei vari precedenti governi per i problemi della scuola, della ricerca, del patrimonio culturale. L'attuale governo, nel quale sono presenti uomini di scuola e di cultura, deve affrontare questi problemi iscrivendoli al primo posto nei piani di sviluppo; si mostri consapevole che solo un Paese colto, con alti livelli di scolarità, è più produttivo: la nostra recessione è anzitutto culturale.


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