Ripide le scalinate intagliate nel tufo, come boccaporti di nave o robuste scale a pioli in legno, poggiate al bordo di botole. Si perdono nell’oscurità di antri sotterranei, assai diffusi nelle campagne salentine.
Una rapida occhiata, pochi passi in un qualunque frantoio ipogeo, e si è immediatamente catturati da una suggestiva atmosfera densa, umida e calda, capace di evocare mitologiche descrizioni omeriche. Diversi per forma e dimensione, questi tipici manufatti ricavati nel sottosuolo pugliese, sono testimonial di strutture industriali del passato, dedite alla produzione dell’olio d’oliva. Essi dettero tangibile contributo all’economia della Penisola per secoli, restando, in alcuni casi, attivi fino ad epoche a noi tanto vicine, da essere nelle memorie giovanili di molti sessantenni d’oggi .
La poca luce del sole che riesce a raggiungere i locali sotterranei dall’ingresso e dalle poche aperture del trappitu (dal latino, trapetum), era la sola che i cinque o sei trappitari che vi lavoravano, vedevano tra novembre e maggio. Durante questo lungo periodo, la macina megalitica smetteva di girare nella vasca solo per l’Immacolata, Natale e Capodanno. In questi giorni festivi agli uomini era concesso percorrere la scala e superare il dislivello di tre o quattro metri che li separava dalla luce del giorno, per tornare dalle famiglie.
Il lavoro nel frantoio, tra le pareti carsiche annerite dai fumi, era duro. I turni iniziavano alle due di notte e terminavano alle sei di sera, erano assegnati dal nachiro, il responsabile della struttura produttiva. Gli operai erano lavoratori stagionali, marinai nella buona stagione e trappitari nei periodi freddi, quando la poca clemenza degli elementi faceva diminuire gli equipaggi nelle imbarcazioni.
Alle fioche luci di lampade ad olio, tutto il lavoro avveniva a forza di braccia, fatto salvo il moto circolare della macina di pietra, perpetuato dal mulo o dall’asino.
Un campanello nella semioscurità scandiva i passi dell’animale bendato, intorno alla vasca. Al termine del ciclo dei sei mesi di lavoro, nella maggior parte dei casi la povera bestia, ormai stremata, poteva servire solo come carne da macello.
Nel frantoio esisteva una gerarchia di tipo marinaresco di cui l’indiscusso capitano era il nachiro (cioè il nocchiero, ‘padrone della nave’), come da traduzione letterale del termine greco naùcleros, da cui nasce. Il suo primario compito era quello di dirigere personalmente le lavorazioni di purificazione dell’olio e la separazione dall’acqua, operazioni di vitale importanza ai fini qualitativi della produzione. Questo direttore dei lavori attribuiva, a suo giudizio indiscusso, la paga agli operai e stabiliva l’avvicendarsi di lavoro e riposo. Il nachiro fungeva anche da guida spirituale del gruppo e provvedeva a benedire il cibo, recitare il rosario e le preghiere serali. Un ragazzo molto giovane faceva, in genere, parte del gruppo di lavoro del frantoio, una figura simile al mozzo di una nave che si occupava di semplici lavori come portare l’acqua e preparare i pasti per i lavoratori, nutrire ed accudire agli animali da tiro.
Il frantoio era comunemente costituito da un ambiente grande, centrale, cui si accedeva direttamente
dall’entrata e da altri spazi perimetrali più piccoli. Il vano principale, spesso di forma circolare, accoglieva la vasca con la macina, un gigantesco cilindro monolitico verticale che serviva per la frantumazione delle olive.
Nei frantoi di piccola dimensione, gli spazi limitati imponevano la presenza dei torchi per la premitura, ubicati perimetralmente, lungo le pareti dell’ambiente centrale. Questa fase della lavorazione, nelle strutture più spaziose, avveniva in locali diversi ad essa dedicati.
Negli altri ambienti si trovavano i depositi delle olive, la stalla, uno spazio con il tavolo per consumare i pasti ed, in alcuni casi, i dormitori per gli operai che, in assenza dei quali, trascorrevano i turni di riposo in cavità e ripiani scavati nel tufo, su sacchi pieni di paglia come materasso.
Le olive venivano scaricate dall’alto, attraverso piccole aperture, direttamente nei depositi del frantoio, ognuno dei quali era riservato alla produzione degli uliveti di un singolo cliente che poteva così controllare il quantitativo di olio ottenuto.
Avvenuta la frantumazione nella vasca sotto la macina, la lavorazione prevedeva l’eliminazione dei frammenti di semi dalla polpa, a questo punto pronta per la premitura. Questa fase del trattamento si portava a termine con i torchi in legno. I due tipi più diffusi erano ‘alla calabrese’ e ‘alla genovese’, ambedue verticali, ed azionati a forza di braccia. Il primo era composto da due grandi pali di legno duro, filettati, saldamente fissati in alto e in basso. Altrettante grosse chiavarde impanavano su di essi, in modo da imprimere la forte pressione necessaria a due robusti assi sottostanti che, pressando la polpa delle olive, ne estraevano il prezioso liquido. Il secondo tipo di torchio, quello ‘alla genovese’, era molto simile al precedente per funzionamento, con la differenza che doveva essere montato in una nicchia ricavata da una parete. Una cavicchia lignea, impanando su di un unico asse cilindrico filettato, andava a premere in basso un piano di legno che scorreva lungo due guide laterali, mantenute verticali da un’opera in muratura.
Sotto al torchio un sistema di canali raccoglieva l’olio, convogliandolo in ampie vasche interrate, dove restava a decantare per il tempo necessario, fino al momento del “taglio”. Come già accennato, il nachiro curava personalmente questa fase della lavorazione, durante la quale avveniva la separazione dell’olio dall’acqua e la purificazione dalle impurità. I residui solidi della lavorazione servivano per alimentare il fuoco, come fertilizzanti e per integrare il mangime degli animali.
I frantoi ipogei hanno incrementato l’attività economica del Salento, producendo olio d’oliva dal Medioevo fino agli anni Quaranta, periodo in cui la maggior disponibilità di energia elettrica determinò anche in questo campo radicali cambiamenti.
In effetti tutti i frantoi salentini del passato erano ipogei o semi-ipogei. Essi furono ricavati nel sottosuolo, sfruttando per lo più le cavità naturali della roccia carsica, per sua natura ricca di grotte e gallerie. Ragioni igieniche li vollero quasi sempre fuori dai centri abitati, in contesti a sé o annessi a masserie e signorili possedimenti rurali. In alcuni casi anche i religiosi si occupavano della produzione dell’olio, mantenendo attivo un trappito nelle terre di proprietà delle chiese. L’eliminazione delle scorie liquide della lavorazione avveniva per dispersione.
Venivano assorbite con estrema facilità dalle fenditure del tufo, senza arrecare problemi igienici né incombenze economiche.
Molte ed evidenti le ragioni che vollero queste strutture sotto terra. Prima fra tutte la necessità di conservazione dell’olio ad una temperatura, scrupolosamente rispettata, compresa tra i quindici ed i diciotto gradi centigradi per non variare le caratteristiche del prodotto. La condizione termica, inoltre, non può scendere sotto i sei gradi poiché, gelando, ne diventa impossibile la lavorazione e difficile il prelievo. L’olio d’oliva deve poi essere protetto da luce e calore in quanto agenti fisici capaci di comprometterne la qualità. La temperatura, di per sé costante dell’ambiente sotterraneo, aveva una media piuttosto alta per fuochi e lampade sempre accesi e per le conseguenze del faticoso lavoro fisico di uomini e animali.
Non meno importanti furono i fattori economici che fecero preferire la realizzazione dei frantoi nel sottosuolo. Adattare grotte e caverne già esistenti, in effetti non richiedeva particolari ingegni d’opera, contrariamente agli edifici classici di superficie. Per scavare era sufficiente manodopera non specializzata, poco costosa, e la manifattura necessitava di esiguo materiale da costruzione.
Nel caso dei frantoi semi-ipogei, cioè non completamente sotterranei, la struttura di copertura, quasi sempre a botte, era di minimo impegno, per tempo e denaro, rispetto alla totalità del lavoro. Poco diversa era anche la condizione dei frantoi ricavati negli spazi sotterranei degli stabili. Ne è splendido esempio quello annesso al Palazzo dei Principi Protonobilissimo di Muro Leccese (Lecce), dove, con una arcata supplementare l’ambiente venne adattato al supporto per la grande macina in pietra.
Volle sottoterra le strutture ipogee anche l’esigenza di fissare in alto gli assi filettati dei torchi ‘alla calabrese’ poiché, sottoposti ad incredibili sollecitazioni durante le operazioni di premitura, necessitavano, per essere efficaci, di buona controspinta verticale, cosa opportunamente garantita dal fondo calpestabile compatto e dalla spessa volta tufacea della grotta.
Molti trappiti, dopo la loro dismissione, sono stati purtroppo adibiti a depositi di attrezzature agricole, magazzini, pollai. Altri sono ancora in completo stato di abbandono. Nonostante ciò, fortunatamente, sono in crescente numero quelli magistralmente restaurati.
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