Black future

Black future

La sua rielezione è stata rumorosa e non c’è giorno in cui non si parli di lui, è inevitabile. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha dato una scossa al mondo, dalla diplomazia fino all’orientamento dei mercati internazionali. Una spallata che ha stravolto quel poco di buono che andava prendendo forma sul piano delle sicurezze, prime fra tutte quelle ambientali.
Sì, perché il ritorno del Tycoon ha generato una prima “eclissi” degli Accordi di Parigi ed è destinato a segnare le scelte dei governi di mezzo mondo. Un cambio di marcia già evidente nella nostra indebolita Unione europea, che sul Green Deal sembrava aver “seriamente” indirizzato politiche e risorse future, e che ora si vede costretta a seguire o sottostare a direttive che vanno sostanzialmente nel verso opposto.
«Trivelleremo ovunque» è stato fin da subito il motto di casa Trump mentre la strada della transizione energetica si fa sempre più stretta e tortuosa, non solo negli USA. Non a caso, lo scorso 3 marzo otto Paesi appartenenti all’Opec+ hanno stabilito l’aumento della produzione di petrolio a partire dal 1° aprile; trattasi di un accordo mirante a far scendere il prezzo dell’oro nero e a influenzare, di conseguenza, l’andamento dei mercati a breve termine. Gli 8 Paesi in questione, che insieme producono già una ragguardevole fetta di petrolio a livello mondiale, sono Russia, Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Kazakistan, Algeria e Oman, in poche parole c’è tutto il Medio Oriente che conta (più Putin). Dal lato dei consumatori potrebbe trattarsi di una buona notizia, ma non lo è e non lo sarà in termini di transizione energetica, in quanto tali manovre non faranno altro che scoraggiare ulte­rior­mente gli investimenti sulle energie rinnovabili.
Sulla “strada del fossile” marcia imperterrita anche la nostra piccola Italia. Lo scorso 27 febbraio L’ENI ha presentato il Piano strategico 2025-2028: da un lato emerge un “timido” (simbolico?) incremento delle rinnovabili (+2GW l’anno) mentre, dall’altro, l’obiettivo è quello di aumentare la produzione estrattiva del 3-4% annuo fino al 2028 compreso, per poi stabilizzarsi fino al 2030. Neanche una piccola inversione di marcia, anzi, qualche passo in più. Sembrano ancora riecheggiare le parole della nostra premier alla Cop29 di Baku: «Non c’è una singola alternativa ai combustibili fossili». Con Trump la musica non cambierà, anzi, il neoeletto presidente USA ha già alzato il volume.
Ma “l’effetto Tycoon” non si esaurisce solo nell’irrinunciabile mercato del fossile. Anche sul fronte della nostra politica interna, i detrattori delle teorie ecologiste hanno ripreso linfa vitale, parlando di eco-follie o di eco-bufale persino nei palazzi istituzionali. Non stupisce e non è una novità sentire espressioni simili in seno alla maggioranza, ma sentir parlare solo di pragmatismo e competitività in contrapposizione a un presunto “ambientalismo ideologico” sembra più che altro un voler negare il problema piuttosto che affrontarlo. Siamo al solito nodo cruciale: se il rispetto delle politiche ambientali “non conviene” all’imprenditoria italiana, meglio fare marcia indietro. Guai però a chiamarli “negazionisti climatici”. Evidentemente sono le direttive previste dal Green Deal ad essere estremiste.
Ad essere “d’intralcio”, però, non sarebbero solo gli ambientalisti-militanti-eco-folli: ci sono anche gli scienziati, i ricercatori, insomma, gli esperti… quelli che non si possono zittire con un convegno di partito. Loro sì che rappresentano un problema, specie se svolgono il loro prezioso lavoro per conto dello Stato. È il caso dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale fondato nel 2008. Ente pubblico, autonomo, sottoposto alla vigilanza del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica (MASE), negli ultimi mesi l’ISPRA è stato nell’occhio del ciclone per le ormai annuali polemiche sull’apertura della stagione della caccia. Ma non sono solo i cacciatori (categoria ormai in via d’estinzione, al pari delle loro prede) e le lobby degli armieri ad avercela con l’Istituto: la proposta di legge del leghista Bruzzone, fortunatamente bocciata all’inizio del suo iter parlamentare, voleva debellare l’ente e sostituirlo con un altro istituto più “docile” nei confronti delle realtà venatorie… come se l’ISPRA non si occupasse (anche) di altro. Ma, anche qui, non c’è da stupirsi: le ricerche dall’ente mettono continuamente a nudo le contraddizioni della politica nei confronti dei parametri ambientali, paesaggistici, che la stessa Comunità europea ci impone di osservare… ricerche che a questo governo, in particolar modo, non sono per nulla gradite.
Brutti segnali che prospettano un futuro nero, come il petrolio (e non solo). Altro che “green”: è iniziato il Black Deal, in tutti i sensi.

Il Direttore Editoriale
Matteo Picconi

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