«Cretini e complici»?

I fatti del 7 ottobre e la sanguinosa risposta di Israele in Palestina non hanno solo sconvolto l’opinione pubblica mondiale: hanno nettamente polarizzato le posizioni, come è avvenuto sulla questione umanitaria, come tutt’ora avviene nella narrazione del conflitto in Ucraina. La tragedia di Gaza risente perfettamente di questa polarizzazione, quella del “dentro o fuori”, del “pro e contro”; lo si è visto proprio nelle settimane scorse cosa comporta mostrare pubblica solidarietà al popolo palestinese… con l’aggravante di diventare «cretini e complici».
Sfugge tuttavia un aspetto nell’ampio dibattito politico intorno alla tragedia di Gaza, quello umanitario. Una cosa non “trattabile”, non “rimandabile”, non “discutibile”, la questione umanitaria. Se si vuole leggere il conflitto in Palestina in un altro modo, basta guardare alle instancabili attività, missioni e appelli delle grandi e piccole associazioni umanitarie. «Un mese dopo che la Corte internazionale di giustizia aveva ordinato “misure immediate ed efficaci” per proteggere la popolazione palestinese della Striscia di Gaza occupata dal rischio di genocidio – si legge in un comunicato di Amnesty International dello scorso 26 febbraio – Israele non ha fatto neanche il minimo passo per ottemperare all’ordine attraverso la fornitura di sufficiente assistenza umanitaria e il funzionamento dei servizi di base».
Se non basta il numero dei morti, si guardi a quello dei civili sopravvissuti nella Striscia: secondo i dati dell’UNICEF, oltre il 15% dei bambini al di sotto dei due anni è denutrito; solo un quarto degli ospedali è parzialmente attivo; oltre due milioni di persone sono a rischio carestia. Mentre l’attacco militare israeliano non dà tregua, il dramma si consuma ai confini di Gaza, tra i blocchi dei camion da parte dei militari israeliani (e, abbiamo visto, anche da parte di civili israeliani) e migliaia di sfollati palestinesi ridotti alla fame. Un dramma quantomeno “auspicato” dal governo Netanyahu: il premier israeliano, infatti, non ha mai nascosto la sua ostilità nei confronti delle associazioni, anzi, le ha sovente accusate di essere complici di Hamas. Dunque anche Emergency, Actionaid, Medici senza Frontiere, la Croce Rossa… rischiano di diventare «cretine e complici»?
Ma la domanda principale resta sempre la stessa: che posizione sta prendendo il nostro Paese? Siamo passati dall’astensionismo alle timide richieste di “cessate il fuoco”. Garantire l’appoggio incondizionato al governo israeliano mentre Netanyahu profila un futuro incerto per la popolazione di Gaza e i relativi aiuti umanitari (il caso della chiusura dell’Unrwa rischia di diventare solo un “primo caso”) non è una posizione accettabile, equivale (in questo caso, sì) ad essere “complici” di un massacro… e guai a chiamarlo genocidio.
La vita di migliaia di bambini, donne, anziani, ragazzi, di un popolo che “porta la croce” proprio sulla terra che ha dato i natali al Cristianesimo, non può dipendere dalla fitta agenda internazionale. Non si possono attendere le elezioni europee e le presidenziali americane; l’umanità non può stare ai comodi della politica, non fino a questo punto. E chi fa di questa umanità il suo lavoro, la sua missione, deve essere quantomeno messo nella condizione di operare. La popolazione di Gaza aveva estremamente bisogno di aiuti già prima, non possiamo lasciarla al proprio destino.
È proprio su questa perdita di tempo, giorni, mesi, che si sta giocando la partita. Netanyahu non rappresenta il suo Paese, figuriamoci se può rappresentare tutta la comunità ebraica mondiale, anch’essa divisa, impaurita. Bibi rappresenta solo una parte del suo popolo, sicuramente quella più forte, quella più “coperta”. Su di lui stanno aumentano pressioni da parte dell’opinione pubblica, interna e internazionale, ma tutto ciò ancora non è bastato. Serve alzare di più la voce. Se Ponzio Pilato se n’è lavato le mani, le democrazie occidentali non possono permetterselo.

Il Direttore Editoriale
Matteo Picconi

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