“FEMMINICIDIO: E SE FOSSE…….?
Un problema culturale legato alla evoluzione dell’uomo?
Torna in mente la frase “E vissero felice e contenti”, con la quale finiscono molte favole: la sintesi della struttura narrativa classica e di tutte le rappresentazioni culturali.
Frase positiva che invece diventa nefasta, l’inizio di fraintendimenti che riguardano il significato della parola “amore”. Si insinua da bambini e condiziona la percezione che abbiamo dell’altro, come soggetto dei nostri interessi e desideri amorosi. L’idea si fa così pregnante, che ci concentriamo sulla eternità dell’atto “per sempre”. Sulla sua prevalenza in noi stessi e sul significato che si riflette sui nostri percorsi individuali, da quel momento in avanti, diventano esclusivamente di coppia, perdendo di vista quel che significa sul piano individuale e della evoluzione personale. Questo alimenta aspettative sull’altro caricandolo di responsabilità o di obiezioni perché spesso: “non è come vogliamo che sia” (e ci mancherebbe pure!).
Le rappresentazioni dei fatti di cronaca dimostrano una volta di più che la società non vuole e non sa dare risposte alla domanda “chi è l’altro”, la sensazione di proprietà, ha esiti che spesso sfociano in violenze sugli ex partner, molestie, stalking, persecuzioni, fino all’omicidio. L’idea che l’amore sia “per sempre”, come il diamante (guarda caso un claim commerciale di cui ne diventa una icona), fa i suoi bei danni. Il risultato è che quando finisce una storia, non sappiamo più che fare, ci sentiamo svuotati a volte anche umiliati. Ci lascia disarmati e non abbiamo strumenti per capirne il senso.
Pellegrini nel mondo dell’amore,
A proposito dei pellegrini scrive da Davide Gandini: “colui che cerca accettando l’incalcolabile rischia di trovare davvero”. L’amore è la stessa cosa: un incalcolabile rischio. Cerchiamo disperatamente qualcosa senza sapere di cosa – in fondo – si tratti, ma soprattutto cosa farne nel momento in cui si è trovato e tantomeno quando lo si perde. Non abbiamo risposte perché non siamo stati abituati a comprenderne il significato più profondo nei nostri percorsi individuali. La società e la cultura dominante, inoltre, ci impongono delle narrazioni, religiose, politiche, commerciali (vedi il diamante). Le nozze che diventano ostentazioni anche kitsch su programmi televisivi e fiction. L’amore non è il modello di riferimento che ci propongono, al quale aderiamo in modo accondiscendente, con esiti culturali sulle azioni concrete degli uomini che sono sotto gli occhi di tutti.
L’alternativa è ricercare il senso dell’ amore nella propria vita e la personale percezione del mondo, dell’alterità nel significato della relazione con l’altro. Trasformare quindi questa ricerca in una illuminazione interiore.
Come un faro che guida i naviganti durante le notti…
La strada da tracciare è quindi personale, di propria luce interiore. “Chi cambia se stesso cambia il mondo”, per questo occorre ripartire da un punto di vista diverso. I contributi che vengono dalla società sempre più individualistici e razionalistici, verrebbe proprio da dire, sotto il punto di vista del sentire e del senso, come diceva Nitzche: “Dio è morto e l’uomo è sempre più solo”.
Nella sua solitudine, l’uomo ricerca inconsapevolmente il momento della nascita, come affermazione della sua specificità, il momento che l’ essere umano inconsapevolmente vive e forse ne ha nostalgia – inconsciamente – per il resto della vita.
Esperienza primordiale di completezza, accettazione e accudimento, almeno fino quando la mamma non diventa – anch’essa – madre “sociale” ed inizia ad imporre le proprie regole e i necessari meccanismi sociali e di regolazione individuali.
Nell’amore si innesca la stessa dinamica di quell’ambiente devoto, anzi lo si ritrova nell’atto dell’innamoramento che dura – stando alle ricerche – circa tre anni.
Gli innamorati in quella fase si rispecchiano e vedono solo se stessi, isolandosi dal resto del mondo, esaltando la propria specificità, quella che potremmo definire una specie di illuminazione cioè “quell’attimo di eternità”, in cui la presenza della società è praticamente sospesa.
L’amore è l’atto più antisociale che esista. Per amore l’uomo rompe convenzioni sociali, patti legali, amicizie relazioni familiari.
La coppia diventa “sociale”
E’ questo il momento in cui le cose si complicano, il matrimonio o altre convenzioni sociali si intromettono a sancire l’idea del possesso e contemporaneamente si affievolisce anche la spinta iniziale.
A questo punto, anziché affermarne le rispettive specificità e intraprendere un percorso di illuminazione reciproca e crescita di coppia, si perde di vista il motivo di questo viaggio. Si è trovato l’approdo, ma non si riesce a comprenderne l’essenza e ci si perde dietro il possesso sistematizzato dalla società, attraverso convenzioni, narrazioni, rappresentazioni sociali e obblighi legali come punto di arrivo a sancirne i vincoli.
Quindi non ci si assume più “l’incalcolabile rischio”: la soluzione è possedere l’altro. E’ quello il momento in cui l’uomo perde l’occasione per comprendere il significato ultimo e collude con le “costrizioni” culturali e sociali.
L’oracolo di Delfi sintetizzava così il senso vitale “Conosci te stesso” ma “Conosci i tuoi limiti”. L’uomo non affronta queste questioni, se li lascia risolvere dalla società che gli preconfeziona “soluzioni di sicurezza e garanzia” offrendogli una cornice culturale che ne limita l’evoluzione.
Invece grazie all’amore, accade di conoscersi, come ricorda Italo Calvino, ne Il Barone rampante: “Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così”.
Quello stato dell’essere è la nostra essenza rispecchiata nell’altro che si trasforma in illuminazione. E’ lo stato di grazia, di coscienza che ci fa conoscere noi stessi come mai ci siamo riconosciuti, vive di una sua luce e ci guida appunto come un faro di notte. In questi termini l’amore non è possesso della persona, ma relazione privilegiata, che permette – attraverso l’ altro – di conoscere sé stesso come nessuna altra condizione vitale permetterebbe.
Quando l’amore finisce
Dovremmo essere sempre grati alle persone che ci hanno permesso di raggiungere la nostra essenza e lasciarle andare, se hanno deciso di andare, perché solo così avremmo raggiunto anche l’altro scopo: “conoscere i nostri limiti”.
Nel riconoscere la libertà dell’altro, riconosciamo di conseguenza i nostri limiti umani che non dovrebbero contemplare il possesso dell’altro e tantomeno la sua distruzione, anzi nella riconoscenza di colui/colei che ci ha permesso di accedere alla nostra vera illuminazione interiore.
Quello stato una volta vissuto non ci abbandona più perché diventa nostro, l’altro egli ci ha solamente illuminato e accompagnato per un tratto del nostro cammino fino che ci sono le condizioni e la volontà comune di impegnarsi, per poi proseguire da soli o con chiunque si voglia condividere.
Il nodo problematico
La nostra cultura dominante – invece – ha espulso la sofferenza (una delusione, un torto subito, un abbandono) perché è disdicevole, è imperante il principio per cui l’ essere umano sano, dovrebbe essere sempre felice.
In realtà un essere umano che non provasse sofferenza psichica avrebbe meno possibilità di raggiungere i suoi scopi personali, una pessima capacità di adattamento e una vita incolore – in breve – la sofferenza è normale, perché legata alla progettualità e ai desideri umani, essa emerge quando si trova difficolta nella loro realizzazione.
La sofferenza diventa patologica se nell’andamento del tempo non diminuisce e non evolve, in quel caso gli individui dovrebbero essere aiutati a superare la delusione ed attenuare la sofferenza. Il sistema umano funziona così, utilizza il segnale “sofferenza” per cambiare.
Il cambiamento diventa cambio di strategia o accettazione e rimodulazione dei nostri progetti e desideri – indici di salute mentale.
Quando finisce un amore si percepisce potente il “vuoto”, prodromo e moltiplicatore della sofferenza, che –però- una volta compresa e accettata, diventa il volano per il nostro cambiamento, in esso ritroviamo la consapevolezza, quel vuoto diventa – invece- “spazio” per altre opportunità e possibilità di cammino nella nostra esistenza.
Fino al bivio successivo, dove – se necessario – si cambia un’altra volta.
di Marco Ricciotti