La mortalità in terapia intensiva è di circa il 50%

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Intervista all’anestetista-rianimatore Dott. Tiziano Crespi

Per affrontare l’emergenza Coronavirus 2019-NCOV la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) ha istituito un’apposita task force e di averne comunicato i componenti all’Istituto Superiore di Sanità. Un componente di questa Task Force è il dott. Tiziano Crespi, anestesista-rianimatore, dirigente medico, referente dell’area di Anestesia per la Chirurgia Vertebrale nell’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione all’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano. Attualmente è impegnato nel reparto di Terapia Intensiva COVID-19 presso IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano.

Quando ha iniziato ad interessarsi al Covid 19?

Lavoro in un istituto chirurgico, privato convenzionato e prettamente ortopedico, pertanto non ho avuto modo di notare polmoniti sospette: il nostro pronto soccorso è prevalentemente ortopedico. Ero al corrente della situazione in Cina e quando è stato dichiarato il primo caso di Codogno (21 Febbraio) ho avuto un pessimo presentimento. Non solo io ma diversi colleghi hanno manifestato le medesime preoccupazioni. Sabato 22 Febbraio ero impegnato come relatore in un evento formativo presso il nostro istituto.
L’apertura dei lavori è avvenuta con una sessione fuori programma durante la quale la sezione di Risk Management ha comunicato i primissimi aggiornamenti e i primi provvedimenti intrapresi. Dopo poche ore sono stato informato di una riunione di aggiornamento della Direzione Sanitaria programmata per domenica 23 febbraio. Incontro straordinario.
Nel pomeriggio il mio primario Dott. Paolo Perazzo, mi ha telefonato comunicandomi che Gruppo San Donato stava reclutando volontari per istituire una Task Force da inviare in supporto all’Ospedale di Lodi: ho chiaramente detto di contare pure su di me. Mercoledì 26 il primo contatto col coordinatore, in servizio all’Ospedale San Raffaele, con reclutamento già per la settimana seguente: da lunedì 2 Marzo operativo. La situazione all’Ospedale di Lodi mi è stata descritta come uno scenario di guerra, personale che non tornava a casa oramai da settimane, postazioni di terapia intensiva e subintensiva allestiti in reparti con supporto da personale non operante in area critica. Un ospedale sovrasaturo che, malgrado la netta discrepanza tra risorse disponibili (materiali ed umane) e numero di accessi con grave insufficienza respiratoria ha fatto l’impossibile per accogliere tutti i pazienti in Pronto Soccorso e prendersene carico. È seguito il “burst” di casi a Bergamo e si è registrato un numero via via crescente di casi in località sempre più prossime a Milano. Nel pomeriggio di Domenica 8 Marzo ho ricevuto la comunicazione di contrordine per il supporto a Lodi. Revoca della Task Force per necessità di centralizzare tutti gli anestesisti-rianimatori presso i propri istituti al fine di preparare i piani di conversione e realizzare percorsi e spazi per accogliere i pazienti COVID-19 sia i positivi che i sospetti. Abbiamo creato percorsi unidirezionali puliti per accedere alle aree isolate (“sporche”), zone di decontaminazione e zone pulite di deflusso dalle aree di decontaminazione. Siamo riusciti a creare due ospedali in uno: uno per far fronte all’emergenza COVID-19 e uno per continuare a gestire pazienti negativi di competenza chirurgica in ambito traumatologico. Un lavoro che va ben oltre l’immaginabile.

L’OMS ha ormai dichiarato la pandemia ed servizi di Anestesia e Rianimazione Italiani, in particolar modo quelli della regione Lombardia ha subito un iperafflusso di pazienti affetti da Grave Insufficienza Respiratoria Acuta Ipossiemica causata dal nuovo Coronavirus. Come vi siete preparati allo scenario peggiore?

Ci riteniamo privilegiati perché abbiamo potuto far tesoro delle esperienze comunicateci da chi per primo si è trovato al fronte (Lodigiano e Bergamasco). L’accesso all’istituto è stato centralizzato (per dipendenti e utenza) in un unico punto di ingresso ove è stato realizzo un Check Point per rilevazione temperatura corporea e verifica di presenza o assenza di fattori (clinici ed epidemiologici) di rischio per contagio COVID-19. Gli accessi sono stati razionalizzati anche per parenti limitando il numero di accessi e riducendo l’orario di visita ma sempre garantendo il supporto dei famigliari ai degenti. Abbiamo adottato una serie di misure cautelative per ridurre il più possibile l’esposizione al rischio di contagi interni da parte di utenti e operatori.
Come istituto privato convenzionato, Galeazzi non è stato immediatamente coinvolto con la gestione dei pazienti COVID. La Regione non ci ha inoltrato nessuna richiesta nella settimana del 9 Marzo ma già dal principio ci siamo organizzati e preparati a dare il nostro contributo. Dopo aver messo in atto tutte le strategie di contenimento, con la realizzazione di una Terapia Intensiva dedicata (oltre a quella post-operatoria che è stata spostata in un altro piano) abbiamo comunicato la nostra disponibilità per accogliere i pazienti positivi. Data la grave situazione abbiamo inizialmente aperto due posti letto in terapia intensiva COVID con largo anticipo e nell’arco di 24 ore ne abbiamo aperti altri due. Chiaramente sono stati occupati subito all’apertura con pazienti trasferitici prevalentemente da Bergamo e zone limitrofe al lodigiano. Abbiamo aperto anche 14 posti letto di isolamento in reparto per pazienti COVID positivi e sei posti letto isolati per COVID sospetti. Ovviamente riempiti nell’arco di una giornata. Martedì 17 abbiamo aperto un quinto posto letto in terapia intensiva per un paziente aggravatosi in reparto di isolamento. A brevissimo trasferiremo la Terapia Intensiva COVID in blocco operatorio in modo da poter incrementare il numero. Attualmente abbiamo 10 posti letto in Terapia Intensiva COVID, 44 posti letto per pazienti SARS-Cov-2 positivi in un piano isolato, 22 posti letto in stanza singola isolata per pazienti sospetti (in attesa di esito tampone) in un altro piano e 47 posti letto per pazienti SARS-Cov-2 negativi distribuiti su altri 2 piani.

L’Italia ha già dimostrato di non avere a disposizione la giusta quantità di attrezzature specifiche per far fronte all’urgenza. Le risulta che negli ospedali del Nord, a causa della mancanza di posti di terapia intensiva e dell’alto numero di ammalati di Covid-19 si stanno scegliendo i pazienti da curare, lasciando i «soggetti più deboli» al proprio destino?

No, nel modo più assoluto non si stanno “scegliendo” i pazienti da curare. Chi necessita riceve cure. Bisogna tuttavia entrare nell’ottica che l’attuale situazione di emergenza sanitaria nazionale ha precocemente assunto le caratteristiche, in tutto e per tutto, degli scenari di medicina delle catastrofi e medicina di guerra. Di fronte ad una netta discrepanza numerica tra risorse (materiali e umane) e pazienti, non sempre si è in grado di trattare tutti nel momento e nelle modalità richieste. Se di fronte a 2 pazienti sono disponibili risorse di trattamento solo per uno di essi, bisognerà decidere dove impegnare le poche risorse disponibili e questo significa dedicarle al caso che manifesta, sul momento, più probabilità di recupero. Nell’ambito civile (nei casi di mass casualties) e in quello militare, nella fase di triage sul campo, il paziente senza polso (cioè in arresto cardiocircolatorio) è per definizione un paziente perso: il trattamento sul campo, in uno di questi due scenari, di un solo paziente in arresto cardiocircolatorio richiederebbe l’impiego di diverse risorse umane e materiali avanzate che verrebbero sottratte a molti altri feriti con maggior probabilità di sopravvivenza. In altri termini per cercare, forse, di salvare un paziente molto critico e con probabilità di recupero pressoché nulle, si rischia di far morire diverse persone in condizioni meno critiche e con elevate probabilità di recupero o addirittura con certezza di sopravvivenza. Ad ogni modo, ripeto, non si stanno scegliendo i pazienti da curare e quelli da non curare. Le cure vengono erogate a tutti proporzionalmente alle condizioni cliniche, alle possibilità ed alle risorse. Purtroppo quando poi le condizioni cliniche precipitano e si necessita di cure avanzate si amplifica la discrepanza tra “domanda e offerta”. È una realtà cruda e straziante a cui non siamo abituati. La Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) ha emesso un documento contenente le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”. Non si tratta di un documento segreto come dichiarato da qualche testata in cerca di scoop, il documento è (su internet) accessibile liberamente (sul sito www.siaarti.it nd.r.).

I pazienti sono tutti anziani oppure ci sono anche giovani?

No, ci sono anche molti giovani. Credo che i dati ad oggi disponibili siano piuttosto orientativi perché, per avere certezza assoluta sul numero di individui positivi, bisognerebbe eseguire tamponi su tutta la popolazione: questo non è possibile. Bisogna poi distinguere tra i pazienti positivi che rimangono a casa senza necessità di ricovero, tra coloro che vengono ricoverati in ospedale e quelli che poi accedono alle terapie intensive. Da dati comunicati da ISS emerge che non esiste una classe di età risparmiata. Dai dati registrati le classi di età da 0 a 19 anni rappresentano fino all’1% dei casi (con bassa letalità), quelle da 20 a 39 anni fino al 7.2% (con bassa letalità), quelle da 40 a 49 anni il 13% (con bassa letalità ancora < 1%), quelle da 50 a 90 anni fino al 19.5% (con alta letalità, fino oltre il 30%).
Un po’ differente l’identikit del paziente che giunge in Terapia Intensiva. Da un report di fine Marzo del GiViTI (Gruppo Italiano per la Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva) emerge che gli accessi coinvolgono maggiormente pazienti tra 46 e 75 anni, di sesso maschile, un po’ più frequentemente sovrappeso, con comorbidità, soprattutto (per il 54%) ipertesi; stranamente molto meno i pazienti con patologie respiratorie croniche. La mortalità in Terapia Intensiva è di circa il 50%.

Come sono cambiati i suoi turni di lavoro dopo l’emergenza SARS-COVID19? Il suo umore ne ha risentito?

Il carico, l’intensità e l’impegno lavorativi sono cambiati enormemente già ancor prima di accogliere i primi pazienti affetti da SARS-Cov-2. I preparativi di approvvigionamento e ridistribuzione risorse, la conversione di spazi e personale ha richiesto molto impegno da parte di molti. Non saprei in termini di ore ma la sveglia suonava alle 5 e uscivo dal lavoro col buio. Sono poi stati individuati gli elementi da includere, per competenze e conoscenze, nella Task Force COVID. Abbiamo iniziato, per iniziale limitazione di risorse, aprendo 4 posti letto di terapia intensiva, sul finire della prima settimana siamo passati a 5. La settimana seguente abbiamo trasferito e riorganizzato la terapia intensiva nel blocco operatorio aprendo prima 8 e poi 10 posti letto. Ovviamente tutto è cambiato ulteriormente in brevissimo tempo. I turni venivano assegnati inizialmente dalla sera per il giorno seguente per organizzare anche le sedute chirurgiche per traumi ortopedici di pazienti positivi o sospetti. Ora non ci sono più riposi né recuperi ordinari. Siamo stanchi ma siamo forti e non vogliamo nemmeno stare a casa: la priorità è garantire il massimo livello di assistenza ai pazienti e la massima continuità assistenziale.

Quanti sono i medici che prestano servizio nel suo reparto? Crede siano sufficienti?

Siamo tutti anestesisti rianimatori, ma siamo un team e del team siamo solo una parte assieme ad infermieri, gli operatori socio-sanitari, medici e tecnici di laboratorio, tecnici di radiologia e radiologi, neurologhe e tecniche di neuro-fisio-patologia. Non posso tralasciare cardiologi, fisiatri e chirurghi che sono impegnati in un’attività lontana dalle loro competenze specialistiche nel reparto di isolamento COVID: ora sono medici di Area COVID. Ricordo anche tutto il personale di ingegneria clinica ed il CED per il prezioso supporto nella riconfigurazione e riorganizzazione delle comunicazioni interne e la gestione di approvvigionamento, collaudo e installazione dei presidi elettromedicali, tutti indispensabili, motivati, forti e coraggiosi. Tutti stiamo sacrificando molto, ma siamo consapevoli di essere (in questo particolare momento) le Forze Armate al fronte in questa guerra.

Avete il materiale adeguato per proteggervi?

Almeno per ora siamo approvvigionati in modo adeguato, abbiamo tutto ciò che serve. Il consumo dei DPI è una criticità sorvegliata quotidianamente e razionalizziamo il più possibile i consumi azzerando gli sprechi.

Cosa, secondo lei, andava fatto e non per evitare il caos negli ospedali?

Negli ospedali? Il caos si è diffuso ovunque. A mio modesto e opinabile parere credo ci sia stato un balletto mediatico nel quale è stata data voce a troppe persone, esperti e specialisti di settore (effettivi e sedicenti) che hanno urlato tutto ed il contrario di tutto. L’indecisione e le incertezze generano dubbi, questi generano timori che, in assenza di informazioni e provvedimenti chiari, uniformi e condivisi, si tramutano in paura e in fobie: carburanti perfetti per alimentare le fiamme del caos.

La gestione «politica» della sanità italiana è spesso affidata a ragionieri che agiscono usando la calcolatrice tralasciando i veri bisogni. Negli ultimi vent’anni ci sono stati tantissimi tagli alla Sanità Pubblica; coronavirus a parte, il paziente anziano sembra che sia per lo Stato solo un fastidio e un costo. Può escluderlo?
Lo escludo. Per quanto riguarda l’emergenza COVID19 posso solo sottolineare che su scala mondiale tutti i servizi sanitari si sono trovati in seria difficoltà. COVID-19 a parte va ricordato che in Italia l’età media è elevata, si parla di popolazione anziana. Nei decenni il settore sanitario si è pertanto trovato a dover gestire casi sempre più impegnativi con pazienti ad elevato profilo di rischio sottoposti a procedure ad elevato rischio chirurgico. Evidentemente sviluppo ed evoluzione, competenze e capacità hanno permesso di abbassare la mortalità consentendo all’età media di innalzarsi. Ricorre maggiormente alle cure sanitarie chi si ammala e ha patologie croniche, pertanto non il giovane ma prevalentemente l’anziano. L’utenza è maggiormente rappresenta dai “non-più-giovani”, che sono anche i pazienti che occupano maggiormente i posti letto degli ospedali. Dal punto di vista economico (visto che esiste anche questo aspetto, essendo comunque quelle sanitarie delle aziende), l’utenza che crea lavoro e (perdonate il termine) fa girare “il business” sanitario non è il giovane in buona salute. Ovviamente parlo di “business” in senso lato e nell’aspetto più pulito del termine. Va anche ricordato che, al di là della nostra percezione interna per la quale l’erba del vicino è sempre più verde, il Servizio Sanitario Nazionale italiano vanta dei livelli assistenziali elevati e riconosciuti a livello internazionale. Parlo ovviamente da clinico

Cosa si può fare per impedire il contagio?

Come dicevo prima va ridotta all’ennesima potenza la diffusione. Questo virus si è dimostrato dotato di una elevatissima virulenza e di una aggressività maggiore rispetto a quella riscontrata inizialmente. I sintomi possono non manifestarsi anche per 2 settimane (tempo massimo d’incubazione dichiarato) dal contagio quindi si può essere positivi senza saperlo perché asintomatici anche fino 14 gg. Se in questo periodo si circola liberamente, in un solo giorno quante persone potranno essere contagiate da una singola persona? E nei restanti giorni? Ogni singolo contagiato, quanti altri soggetti potrà contagiare? È un aumento esponenziale. Proprio qui risiede il razionale del confinamento al domicilio e dell’obbligo delle mascherine. Si sta chiedendo uno sforzo e un sacrificio (in quanto tali affatto piacevoli) concentrati in un arco di tempo piuttosto circoscritto. Massima l’adesione, minima la durata. Tuttavia l’adesione non è massima e pertanto la durata sarà maggiore. Bisogna capire che, ora più che mai, l’altruismo che protegge la collettività automaticamente e in brevissimo tempo si traduce in protezione di se stessi. Ma vedo che in troppi, ancora, se ne fregano.

Inizialmente, oltre a molti politici, anche diverse personalità del mondo scientifico hanno titubato sull’emergenza. Vede colpe dietro l’attuale situazione?

Sì, ma non vado oltre.

Dott. Crespi ne usciremo? E come? In che tempi?

L’Italia ne uscirà, è solo questione di tempo. Come? Ammaccati. Quando? Ritengo dipenda dagli italiani, dal loro altruismo, dal loro senso civico e dalla loro responsabilità sociale: il bene collettivo deve prevalere sui capricci, sull’egoismo e sull’arroganza.

a cura di Alessia Trotta

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