“L’annosa” questione del lavoro
Il dibattito riaccesosi in questi mesi intorno alla proposta di legge sul salario minimo ha riportato l’attenzione su un tema che, ad oggi, può essere considerata la “questione sociale” per eccellenza, quella del lavoro. Un tema vecchio e ricorrente, possiamo dire secolare. Negli ultimi trent’anni il mondo del lavoro è cambiato, non certo i lavoratori che, semmai, sono aumentati. I nodi principali sono ancora la precarizzazione, i salari troppo bassi, una carente sicurezza sui luoghi di lavoro e un sempre più fievole riconoscimento dei diritti fondamentali della classe lavoratrice.
Si parla generalmente degli ultimi tre decenni e non a caso: dal prorompente processo di privatizzazione iniziato alla fine del secolo scorso, per passare alle riforme dei primi anni Duemila, con l’introduzione, ad esempio, dei c.d. “contratti flessibili”, fino ad arrivare all’affermazione del lavoro interinale e del sistema dei lavori in appalto degli ultimi anni. Scelte che, a lungo andare, non hanno premiato né la produttività né la qualità dei servizi. Un processo che, soprattutto, ha gravato progressivamente sui diritti dei lavoratori, quasi annientando del tutto le “conquiste” sindacali ottenute nel corso del “secolo breve”.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Recenti studi effettuati dall’istituto Ipsoa pongono in evidenza una diffusa insoddisfazione della classe lavoratrice. In Italia, il 40% degli occupati ha dichiarato di voler cambiare lavoro; inoltre, nel primo semestre del 2022, abbiamo superato il milione di dimissioni volontarie (fenomeno detto “Great Resignation”), trend che rispetto all’anno precedente ha registrato un incremento del 31,73%.
Ci sarà un motivo? Dobbiamo sposare il luogo comune che gli italiani sono “sfaticati e ingrati”? Forse le ragioni sono da individuarsi nelle condizioni lavorative “offerte” dalle aziende e dalla troppo spesso “sbilanciata” contrattualizzazione collettiva prevista in ogni settore. Tornando “all’esercito dei dimissionari”, il 35% attribuisce la propria scelta alla scarsa retribuzione, in special modo al centro-sud della Penisola, dove la paga oraria media tocca sovente cifre che possiamo definire ridicole se paragonate al resto dei Paesi dell’Unione europea. Altro dato interessante, un buon 24% ha optato per le dimissioni in quanto «l’attuale occupazione non permette una buona qualità di vita con un adeguato bilanciamento tra lavoro e vita privata».
Non c’è solo la prospettiva incerta del “lavoro sicuro” a turbare la classe lavoratrice. Anche laddove si trovi un impiego nel pubblico (il tanto agognato “posto fisso”), le garanzie e le tutele sono ormai un ricordo del secolo scorso. In questo numero abbiamo trattato delle difficili condizioni in cui operano i Vigili del Fuoco, tra carenza di organico e mancanza di tutela sanitaria, ma lo stesso può dirsi per il mondo della sanità pubblica, uscita praticamente a pezzi dall’emergenza sanitaria e con lo spettro della privatizzazione già alle porte da diversi anni.
A rendere ancora più preoccupante il quadro generale si aggiungono gli incessanti infortuni sul lavoro, la tragedia delle morti bianche, una generale mancanza di sicurezza. Da quindici anni il dramma dei morti sul lavoro non si arresta e nonostante la prevenzione sia ormai entrata (almeno sulla carta) nel nostro sistema normativo, qualcosa continua a non funzionare.
Un’adeguata retribuzione, una copertura sanitaria efficiente, il rispetto della qualità della vita (lavorativa e non), rappresentano nel loro insieme un obiettivo irrinunciabile, dal quale dipende la “salute” del nostro Paese. Un Paese dove i nuovi lavoratori sono insoddisfatti, generalmente poveri e che, di conseguenza, non hanno futuro (e, soprattutto, non lo “generano”).
Anche sorgenti e pozzi si esauriscono quando si attinge troppo e troppo spesso da loro (Demostene)
Il Direttore Editoriale
Matteo Picconi