Omicidio di Colleferro: MMA e il caso che non esiste

LA SPIGOLATURA DEL DIRETTORE

 

Di Leandro Abeille

Il responsabile (o i responsabili) dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte lo deciderà una sentenza, una volta “passata in giudicato” e nessun altro. Nessuno potrà riportare all’affetto dei propri cari la vittima, nessuno proverà piacere alla lettura della sentenza, perché qualsiasi essa sia, quella sentenza sancirà la sconfitta della civile convivenza della nostra società.

Una lezione potremo imparare, quella del silenzio, dell’informarci seriamente prima di esporre teorie o scrivere post, del non ascoltare e non dare spazio ai demagoghi da 4 soldi che avevano già “profilato” i presunti colpevoli e già li avevano posizionati nella parte politica avversaria. Come se praticare  arti marziali sia di destra e –magari – infilare perline sia di sinistra. Mio padre, Raniero Abeille, grande maestro di karatè insegnava a molti della sinistra extraparlamentare (come si chiamavano negli anni 70 e 80 del secolo scorso i facinorosi di sinistra) e a qualche, sparuto, militante di destra. Pare che Mawashi-geri e Iako-tsuki venissero dispensati da entrambe le parti politiche, durante le risse o le manifestazioni.

In molti hanno sbattuto i due sospetti in prima pagina come colpevoli certi, insultandoli sui social, augurando loro la morte tra le sofferenze. Certo non parliamo – probabilmente – di “stinchi di santo”, ma i cercatori di scoop, o i leoni da tastiera, difficilmente aspettano la fine delle indagini, figurasi una sentenza. La colpa principale sembra essere quella di praticare la “micidiale” MMA (Mixed Martial Arts). Qualche “scureggione” (cit. Cicalone) si è affrettato a demonizzare la MMA, altri hanno addirittura identificato una sorta di sindrome psicologica – la MMM – Mixed Martial Mania – quella di cui soffrirebbero i “fissati” delle arti marziali.

I maestri di arti marziali invece hanno subito fatto i “distinguo” tra il presunto abuso di arti marziali degli aggressori e – invece – il necessario “rispetto” per gli altri che s’insegna nelle palestre. Nelle palestre si pratica sport a turni continui, difficilmente il maestro ha la possibilità di parlare e capire se sta insegnando ad un delinquente o meno e difficilmente, i praticanti che potrebbero essere teppisti, vengono allontanati, pagano: la pecunia non olet.

 

Gli sport da combattimento

Non esiste un rischio maggiore di commettere reati violenti tra chi pratica arti marziali come non è vero che nelle palestre si trasmette la “cultura della non violenza” come vorrebbero far credere alcuni maestri di arti marziali.

Chi si iscrive ad uno sport di combattimento lo fa per molte ragioni differenti, per imparare a difendersi, per fare un’attività meno noiosa della pesistica, per sfogarsi o per fare soldi. E’ più probabile che uno sport da combattimento tolga “possibili teppisti” dalla strada piuttosto che ne metta “in strada, è la storia della Boxe negli Stati Uniti o del Judo in Campania. E’ altresì più probabile che a fare a botte per strada sia qualcuno che non pratica alcuna arte marziale. Il motivo è semplice, il primo è che chi fa arti marziali sa perfettamente che le botte, oltre a darle, si ricevono pure – e fanno male – per cui meglio evitare. Soprattutto chi pratica sport da combattimento non è un frustrato, non ha bisogno di sfogare l’aggressività in strada, perché – volendo – la “rissa” può farla tutte le volte che vuole in palestra. Inoltre, se è un atleta beve poco, si droga poco e sia l’alcool, sia la droga sono spesso responsabili delle risse, se unite ad una mentalità violenta.

Ne consegue che non è il praticare un’arte marziale a far diventare qualcuno un aggressivo, è la mentalità da teppista che rende violenti.

E’ ovvio che chi pratica arti marziali, dal Judo (sport olimpico come la Boxe, il Taekwondo, il Karate o la Lotta) alla MMA, in caso di scontro fisico violento, è più preparato a dare e ricevere colpi, a parità di costituzione fisica e condizioni psicofisiche con l’avversario, ha la meglio. Non bisogna dimenticare però che per far del male a qualcuno o continuare a colpirlo, una volta messo K.O. (provocando gravissimi danni fino alla morte), non c’è necessità di particolari allenamenti. E’ la mente violenta che scatena persone violente, non l’arte marziale che praticano.

 

Fanno sorridere quelli che vorrebbero vietare gli sport da combattimento (la MMA in primis) in maniera eguale a quelli che vorrebbero evitare certe razze di cani o il possesso di armi. Non è il possesso di un oggetto, di un allenamento specifico o di un animale che produce violenza ma l’uso che se ne fa. Per quanto riguarda l’essere addestrato alle arti marziali o possedere armi, gli esperti ricordano che queste sono come il profilattico: meglio averle e non usarle che non averle nel momento del bisogno (cit).

Il bisogno di difendersi è un altro punto: esso è un vero e proprio diritto umano non solo sancito dal nostro codice penale all’art. 52 ma nella dichiarazione dei diritti dell’uomo, la quale, all’art. 3 sancisce il diritto dell’uomo alla sua sicurezza personale. Considerando che il mondo non è affatto composto da sole “brave persone” e le forze di polizia non possono garantire la sicurezza delle persone in ogni istante ed in ogni luogo, sapersi difendere dovrebbe essere una garanzia di civiltà, altro che far west a cui fanno riferimento  pacifinti e radical-chic.

 

Razzismo e cattivi esempi

Last but not the least, la volontà di alcune frange della società a trovare un caso Floyd anche in Italia, ci hanno provato col poliziotto di Vicenza ed ora strumentalizzando il caso di Willy. Il ragazzo era di origini sudamericane e per la sua morte è inutile gridare al razzismo, non è stato colpito perché più scuro o perché di origini lontane, è stato colpito perché abbiamo miseramente fallito l’educazione dei ragazzi a cui si continua a dare riferimenti ed esempi sbagliati: dall’esaltazione della vita di personaggi malavitosi, alla dimostrazione di supremazia verso gli altri a tutti i costi.

Forse spingendo i nostri ragazzi – che rimangono il nostro futuro – a fare più sport da combattimento, senza insegnare loro che “chi mena per primo mena due volte” e che “è meglio un cattivo processo, di un buon funerale”, sarebbe un grande passo in avanti.

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