Politically Correct e Cancel Culture
Cultura
Tutto inizia negli States
Ormai negli Stati Uniti, il “Politically Correct” è usato dalla politica per creare consenso o dissenso tra la popolazione su argomenti che – spesso – non sono presenti come problema nella vita reale della comunità, utilizzando gruppi o minoranze allo scopo di creare casi di scontento che fanno pressione sull’intera popolazione.
Cose buone e storture
“L’espressione correttezza politica (in inglese political correctness) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto formale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L’opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona nei confronti di categorie considerate come discriminate”. Scorrendo la definizione appare che la locuzione “politically correct” sia una cosa positiva, che tiene conto delle sensibilità altrui.
Di politically correct se ne sta facendo un uso massiccio, soprattutto negli States. A cominciare dal cambio di nome di una storica squadra NFL (National Football League): i Redskins di Washington. A seguito di una petizione cominciata nel 1992 da un gruppo di 7 nativi americani – con a capo Suzan Shown Harjo – si chiedeva di cambiare nome alla squadra (fondata nel 1933) poiché a volte la parola veniva usata in senso denigratorio nei confronti degli Indiani d’America.
La petizione non riuscì a trovare tanto consenso, nemmeno fra le stesse comunità native, e così, fu ripetuta negli anni successivi. Fino a quando, nel 2020, è ripresentata durante le proteste per l’uccisione di George Floyd, attirando l’attenzione degli sponsor che, per non incorrere in un boicottaggio, hanno fatto pressione sulla proprietà della squadra e forzato sul rinominare il team: The Washington Football Team. Non tutti i Nativi Americani sono stati contenti di questo cambiamento, anzi, hanno ritenuto la cosa inutile rispetto alle cause e ai reali problemi della comunità. Per ora è stato solo il caso dei Redskins, le altre squadre sportive esistenti nel paese che hanno per logo o per nome qualcosa che riporta a tribù indiane americane, non hanno ricevuto la stessa pressione per il cambio nome. Per cui si ha l’impressione che lo scopo era di colpire solo e soltanto, quella squadra.
Una rivoluzione linguistica e culturale
Il “politically correct” si può considerare come una sorta di “operazione puritana” della storia degli uomini (e donne, politically correct docet), che porta alla cancellazione delle tracce di quello che si ritiene, offensivo e che possa urtare la sensibilità di determinate categorie di persone o di gruppi di minoranza. Naturalmente, queste minoranze sono molto selezionate a secondo dello scopo politico. Inizialmente, però, non era così radicale.
Tutto partì alla fine degli anni 80’, quando, a seguito di sollecitazione di un movimento liberal radical delle Università Statunitensi, si propose di eliminare e sostituire delle parole usate nel linguaggio comune che potevano discriminare o offendere le minoranze etniche o di genere. Così si stabilì il divieto di pronunciare le “N-Words” (nigger, nigro, nigga, black) ritenute offensive per la comunità, rinominata, in seguito: “Afroamericana”. Con lo stesso concetto, si sostituirono termini come “sodomite” e “faggot”, con il termine “gay”, per indicare gli omosessuali. Ultimamente, per non scontentare nessuno, ci si allarga al termine, tutta la comunità LGBTQ (lesbian, gay, bisexual, transgender and queer or questioning), per definire tutti gli orientamenti sessuali e di genere.
Però si può dire che all’epoca l’atteggiamento americano a questo cambiamento, non è stato, inizialmente, immediato e ben voluto. Ad avere grosse difficoltà ad accettarlo sono state soprattutto le zone rurali e meno metropolitane.
Tutti gli anni 90’ sono serviti alla rivoluzione culturale:
- Tolleranza zero nello sport. I linguaggi giudicati inappropriati durante le manifestazioni sportive, hanno consentito un lento ma profondo cambiamento delle nuove generazioni.
- Hollywood con le sue produzioni musicali, cinematografiche e televisive sui temi del multiculturalismo (e delle tematiche gay) sono stati un grosso aiuto e hanno contribuito a far cambiare termini e atteggiamenti che prima di allora erano giudicati sbagliati e inopportuni se non addirittura proibitivi. C’è da sottolineare però che Eddy Murphy ha basato tutta la sua carriera iniziale sulle “N-words”, senza suscitare alcuna protesta ma solo grandi risate. Tutte le categorie, oggi protette e ritenute minoranze, erano colpite durante il suo show satirico, nessuno escluso e nessuna censura. Anche i suoi film hanno queste caratteristiche, tranne l’ultimo, la continuazione del Principe cerca moglie. Se si fa il paragone tra il primo e il secondo, si capisce il “politically correct” applicato ai giorni nostri.
Arrivando quindi ai nostri giorni le “N-words”, sono quasi dimenticate negli States, perché ormai in disuso tranne, contrariamente a ciò che si pensa, nei linguaggi di quelle comunità che le hanno volute cancellare. Le troviamo nelle canzoni Rap, nelle conversazioni tra afro americani, nei giochi di doppi sensi dei gay. Guai se a quei giochi o a quelle conversazioni ci si partecipa da outsider, allora sì che si comincia a essere segnalati per razzismo o omofobia.
Il politically correct che porta alla cancel culture
Un altro esempio di queste azioni “politiche corrette” non desiderate, né richieste dagli stessi interessati, lo troviamo nel rebranding di una famosa marca di sciroppo d’acero: Aunt Jemima. Iniziato con il boicottaggio da parte di una starlette, in tutina gialla fluorescente e attillatissima, la quale annunciava in un video, che, supportando BLM, non avrebbe fatto colazione con uno sciroppo “razzista”. Lo sciroppo d’acero in questione aveva come logo una donna afroamericana “Aunt Jemima” appunto. Ironie della sorte, per quel disegno del logo e del nome, nel 1893, era stata utilizzata come prima modella Nancy Green, un’ex schiava, cuoca ma soprattutto, attivista del tempo. Il suo aspetto rassicurante di “mammy” (le nannies di un tempo venivano chiamate così), le aveva consentito di essere la prima modella afroamericana, divenuta poi milionaria, presente in un marchio famoso a livello nazionale e internazionale.
A sua volta, dopo la sua morte, ha permesso ad altre di ricoprire quel ruolo, creando così nuove opportunità di lavoro e aprendo a nuove possibilità per altri ruoli di attore/ modello per gli afroamericani, fino al quel momento impensabile. Purtroppo, qualcuno ha pensato che questo “aspetto” potesse offendere la comunità afroamericana, proponendo lo stereotipo dell’afroamericano schiavo/domestico. Così hanno cominciato a far pressione sull’azienda centenaria per il cambio di nome, la quale temendo lo stesso boicottaggio, che hanno subito altre marche con loghi simili, si è affrettata a cancellare i suoi oltre cent’anni di storia del brand, per non perdere clienti. Sorprendentemente, a opporsi a questo cambiamento, sono state proprio le famiglie discendenti delle ex modelle di Aunt Jemima. Per queste famiglie è motivo di orgoglio essere rappresentati da Nancy Green, la prima modella afroamericana (divenuta ricca grazie a quel brand), in un epoca dove le persone di colore non avevano diritto di parola. Clamorosa è stata la dichiarazione di Vera Harris – discendente di una modella Aunt Jemima che ha ricoperto il ruolo per 23 anni (dal 1925, al 1948) che ha affermato: “Mi piacerebbe che ci prendessimo un attimo per respirare e non cancellare ogni cosa. Perché bene o male, è la nostra storia!”
Il politically correct ha portato alla cancel culture e la faccina allegra di Aunt Jamina è stata cancellata, rendendo la bottiglia anonima, vuota ed inespressiva; cancellando, così, in un sol colpo, un secolo di storia e di conquiste delle modelle afroamericane.
Gli stereotipi nelle favole
Non è finita qui anche “The Walt Disney Company” ha pagato pegno. E’ bastata la petizione di un certo “Alex O” su change.org per chiedere di cambiare Splash Mountain, una famosa giostra del parco tematico, che rappresentava la storia dei Racconti dello zio Tom. La petizione finiva, suggerendo di rimpiazzare il vecchio giro, con la storia della Principessa e il ranocchio, sempre della Disney, a cui non si era dato abbastanza spazio ed evidenza nei parchi. Questa protesta, come un fiume in piena, ha permesso di passare al setaccio tutto il repertorio dei film Disney, che, a detta dei segnalatori, riproponevano qualcosa su cui potersi offendere o che potessero avere stereotipi ritenuti razzisti – ora gli indiani di Peter Pan e poi Dumbo, gli Aristogatti, Pocahontas.
Alla fine la Disney è stata costretta ad allegare a ogni film una dichiarazione che spiega che il film contiene stereotipi sbagliati.
Ultimamente anche le sostenitrici del “metoo” hanno qualcosa da offendersi con la Disney. Due redattrici di un giornale on line SFGATE di San Francisco (un giornale on line da 30 milioni di contatti mensili, non proprio il “corriere dello sfigato”), dopo aver fatto un giro sulla nuova giostra a Disneyland, sulla favola di Biancaneve, nella loro recensione del tour dichiarano che: “bello il giro ma che il finale, con il principe che bacia Biancaneve, dovrebbe essere riconsiderato, perché «il bacio del vero amore» non può essere vero amore visto che lei sta dormendo e non è consenziente”. In questi casi, poco importa invocare il principio Costituzionale della Libertà di Pensiero (fondamento del politically correct), che così sparisce e annulla la sua esistenza.
Senza (una parte) di storia
Anche Cristoforo Colombo è caduto nella trappola del politically correct che porta alla cancel culture. In alcune città sparse negli States sono state rimosse le statue e si sta dibattendo sul cambiare il nome alla citta di Columbus e anche quello della famosa Columbus University. Il famoso “Columbus Day” è stato rimosso da qualche anno, con grande scontento della comunità Italiana in USA – che ha protestato- ma senza ottenere risultati. Il giorno è stato rinominato “Native American Day”. Si chiama: “Rivoluzione Riparatoria”. Tutto questo, in nome di una petizione fatta nel 1992 che chiedeva la rimozione del Columbus Day a favore dei nativi americani che avevano subito l’invasione (oltre lo sterminio di una parte di essi), da parte degli Europei e che per questo non si doveva celebrare la conquista dell’America. Alcuni stati hanno aderito, cercando anche un compromesso con la storia, continuando a celebrarlo il secondo lunedì del mese ma con il nome cambiato – naturalmente gli italo-americani non l’hanno preso nemmeno in considerazione, quel giorno, per loro sarà sempre il Columbus Day, con tanto di parata per le vie di New York.
Altro esempio di cancel culture invece, l’eliminazione del corsi di studi Classici all’università di Howard, Università prettamente afroamericana, che ha frequentato anche la Vice Presidente Kamala Harris, ritenuti inutili e non produttivi.
Non è tutto oro… ciò che è “corret”
Tutto questo fa comprendere che molto, spesso le azioni di “politically correct & cancel culture” di questi tempi, non contestualizzano i protagonisti interessati e la storia, ma danno un interpretazione dei fatti negativa e distorta, secondo le sensibilità di oggi e non con il senso di ieri. Gli antichi romani avevano gli schiavi – era normale all’epoca – cancellare il diritto romano (base di quasi tutti i diritti del mondo) perché erano schiavisti è più che un errore.
Oggi giorno, si urla tanto al rispetto della diversità, delle minoranze o delle idee. Invocando come principio l’eguaglianza di tutti gli uomini, spingendo una maggioranza a soccombere e senza compromessi. Non considerando che alla fine, come un boomerang, la via del “politically correct” sarà la distruzione di questi stessi princìpi, cosi osannati ed invocati, da trasformare totalmente la società, che potrebbe facilmente diventare più diseguale, isolata, divisa ed egoistica. Rendendo a sua volta impossibile tornare indietro, perché alla fine verrebbe meno – cancellato – un principio democratico fondamentale: la libertà di dissentire.
Chissà se poi potremmo considerare la teoria dei “Corsi e ricorsi storici” di Gian Battista Vico che ci presenta il ciclo di vita e riportandoci ai princìpi primari di convivenza. Quando ormai la storia sarà cancellata e non ci sarà più alcun ricordo per ripristinarla, non ci sarà neanche la possibilità di imparare da essa.
di Francesca De Biase