Saper vivere, pensare e agire

Contro i produttori di povertà

La grande sfida dell’individuo è diventata vivere: un’avventura che comporta incertezze sempre rinnovate, anche nella sola certezza della morte, della quale non ne conosciamo la data.

Natura e controllo

Siamo nati in una epoca di grande incertezza per il nostro futuro, delle nostre famiglie e dell’umanità mondializzata, una società in cui si moltiplicano nuovi rischi legati ad incidenti di ogni tipo: dai cambiamenti climatici alle lotte per le risorse e al controllo finanziario, funzionale al controllo degli individui e della volontà umana di “diventare padrone e possessore della natura”. Natura che si ribella ai cambiamenti stessi che l’uomo l’ha costretta a subire e puntualmente, presenta il conto sempre più pesante e devastante. Tutto ciò a conferma che l’uomo non sarà mai padrone della natura, a meno di scendere a patti e vivere facendo proprie le leggi naturali e i suoi ritmi, non sottomettendo l’umanità alla logica più folle che è quella del denaro e del profitto. Ciò che stiamo producendo è invece una civiltà di rischio che fabbrica catastrofi economiche, politiche, ecologiche e culturali in maniera sistemica.

Comunicazione e incomprensione

Vivere ci mette continuamente a confronto con l’altro: familiare, amico, sconosciuto o straniero che sia. In tutti i nostri incontri e relazioni abbiamo bisogno di essere compresi e di comprendere l’altro, tuttavia, la tanto celebrata epoca della comunicazione, non si è trasformata nell’epoca della comprensione. La comprensione umana non è più insegnata in nessun luogo, il male delle incomprensioni rode le nostre vite e determina comportamenti aberranti, rotture, insulti, dispiaceri e disagi di ogni genere. Senza andare troppo distanti osserviamo che il mezzo più appropriato per la comprensione è il parlare. Il linguaggio si è sempre più impoverito di contenuti ed è diventato strumento di interazione umana con tendenza tecno-economica, sempre più potente e pesante. Si riduce l’educazione, l’istruzione e la cultura nel senso più umanistico e si esalta l’acquisizione di competenze e linguaggi sempre più tecnici, funzionali alla riproduzione di beni e servizi, quindi di competenze professionali. La iper-specializzazione, invece di rigenerare temi vitali, i saperi della vita e affrontare personalmente i problemi del vivere in comune e del sapere vivere bene, ci impedisce di vedere l’essenziale.

Siamo quello che “siamo” e non quello che abbiamo

La parola “vivere” ha in sé il senso di essere in vita, ma si distingue dal sopravvivere che è un “sotto vivere” ovvero: “essere privati delle gioie che la vita può dare, soddisfare con difficoltà bisogni elementari ed alimentari, non poter sviluppare le proprie aspirazioni individuali”. Al contrario, “vivere” significa poter sviluppare le proprie qualità ed attitudini. Nella nostra società la maggior parte delle persone è condannata a “sotto vivere”, almeno se intendiamo questo con il vivere subendo costrizioni e obblighi senza piacere, gioie, soddisfazioni. I nostri momenti di pienezza sono forse quelli in cui ci sentiamo “essere bene”, quando siamo vicini ad una persona amata, in una commensalità amicale, dopo una buona azione, immersi in un bel paesaggio o davanti ad una opera d’arte. La crescita del PIL, dei consumi domestici degli indici di soddisfazione dei consumatori, la crescita del cosiddetto “benessere”, ignorano completamente sia l’ “essere bene”, sia il “mal-essere” psichico e morale che si sviluppa nella crescita del benessere materiale. In effetti il benessere occidentale si identifica con il “molto avere”, sottolineando l’opposizione essere-avere. Invece, la nozione del “buon vivere” rifiuta gli aspetti negativi che implica mal-essere e si apre completamente alla ricerca della solidarietà, della convivialità, compresi nel paradigma pedagogico del vivere bene, “il saper vivere” e “l’arte del vivere”. In opposizione al degrado della qualità della vita, in una civiltà sotto il regno dei calcoli, della quantità, nella burocratizzazione dei costumi, nei progressi dell’anonimato e della meccanizzazione in cui l’individuo è trattato come un oggetto, all’interno di vite sempre più accelerate e cronometrate.

L’uomo nella conchiglia dorata

Il termine “ben-essere” si è degradato, identificandosi con le comodità materiali e con le facilitazioni tecniche prodotte dalla nostra società, del denaro sempre disponibile: il benessere delle poltrone dei telecomandi. L’habitus di cui l’individuo si ricopre nel suo nucleo abitativo, si sommerge in quello che viene definito un “involucro polifonico” dato dai suoi sistemi di home communication, social media, tv digitale, internet e tutto il mondo immaginario/virtuale a disposizione. Immerso in una condizione “simil ipnotica”, perso nel far prevalere quel lato fanciullesco della componente arcaica e magica che connota la natura “demens” insita nell’homo sapiens. Le immagini audiovisive stabiliscono con più forza rispetto agli altri linguaggi, una relazione estetica simile a quella psicologica che si instaura con la magia e la religione, permettendo di percepire l’immaginario come “più reale del reale”. Si assorbono quindi tutti i linguaggi e le interpretazioni che fluiscono, comprese anche le intermediazioni date da un linguaggio sempre più semplificato e spesso volgare, portato alla perturbazione emotiva, giocando con slogan e frasi ad effetto che vanno ad agire sul pathos – l’emotività – escludendo ciò che è logos – logica e veridicità dei contenuti – e tantomeno ethos – etica e autorevolezza di chi dice cosa, soprattutto quando di tratta di consenso politico, consumo e intrattenimento.

La perdita di contenuti

I contenuti pertanto si impoveriscono, in un linguaggio semplificato che perde le sfumature e le differenze. Gli Inuit hanno 21 modi per definire la neve perché è ovviamente funzionale e indispensabile, distinguerne le differenze, nel loro mondo, dove il freddo è padrone e dal cogliere le sfumature dipende la loro sopravvivenza. Nella nostra società il linguaggio tecno-scientifico – invece – assume una condizione lineare, spazio-tempo, per definire in modo consequenziale, fatti, numeri, tempi di lavoro di vita, di guadagno, costi. È possibile alimentare in questa continua linearità funzionale la tecno-economia con termini scientifici che riducono le incertezza e vanno direttamente al quantum, al punto delle questioni, tralasciando differenze e sfumature di differenze. Il lessico si impoverisce delle parole necessarie per esercitare le variazioni testuali su un determinato tema. Il linguaggio tecnico scientifico anglosassone, ancellare al pensiero unico che influenza anche gli incontri quotidiani tra individui, ne è un esempio lampante. Non solo, le domande di presentazioni tra due individui si riassumono nel valutare gli aspetti economici dell’altro: “che lavoro fai? – chiediamo ad uno sconosciuto o se vogliamo essere meno diretti, “di cosa ti occupi?” quasi mai “chi sei..?”. Parafrasando Weber, la razionalità se non ha un “senso” diventa una “gabbia d’acciaio” per l’individuo e in questo caso, diventa una gabbia culturale, perché ne restringe sempre più i confini, una prigione sempre più piccola perché restringe la mente. In questo caso saper “distinguere” assicura la sopravvivenza dell’umano, nella sua pienezza di essere.

La povertà Culturale

La povertà di contenuti del linguaggio determina quindi una povertà culturale, una incapacità di esercitare un pensiero riflessivo, in quanto, con il linguaggio tecnico si procede nella dimensione lineare spazio-tempo e non si raggiungono le vette dei linguaggi raggiunti dalla poesia, dall’arte, dalla letteratura, non si alza lo sguardo e tantomeno si vola alto, anzi si avanza lungo un corridoio abbastanza definito. Se non si raggiungono quelle vette, che la varietà di questi linguaggi ci prospettano, non si raggiungeranno mai neanche grandi capacità di pensiero, di visione alternativa, perché i pensieri sono connessi alla conoscenza e al linguaggio che ne rappresenta il grande magazzino cui attingere. La nostra consapevolezza e coscienza sono confinati in quei stessi limiti, circoscritti proprio dalla qualità del linguaggio, della conoscenza e del pensiero stessi. Chi ha poche conoscenze, ha poche parole per esprimersi e possiede una capacità di pensiero limitato, si lascia trascinare dagli impulsi e convincere da chi ne sa stimolare le emozioni. Difatti, in molti casi, poi, passa alle vie di fatto, alla violenza, a stigmatizzare l’altro e non comprenderlo, perché non si hanno più parole per esprimere e controllare le proprie emozioni, precipitando di fatto alla condizione “demens”.

La libertà tripartita

Conoscenza linguaggio e pensiero sono i tre lati di una triade che è un tutt’uno. L’educazione a vivere deve stimolare l’autonomia e la libertà della mente e del pensiero che comporta la frequentazione degli scrittori, dei pensatori, dei filosofi, dell’arte, ma anche l’insegnamento di cosa sia la libertà, che non è la possibilità di poter spendere denaro a piacimento per ottenere qualsiasi cosa e soddisfare qualsiasi impulso. Il linguaggio, la conoscenza e il pensiero, al servizio dell’interazione umana, determinano la qualità con la quale gli uomini comunicano tra loro, infatti ogni azione umana è un atto comunicativo e vitale, come respirare, ma lo possiamo fare istintivamente o con consapevolezza, ciò scaturisce dalla profondità e dalla qualità del pensiero. Il fine del comunicare tra gli esseri umani è per comprendersi.

Relazione e comprensione

L’individuo ha bisogno di essere riconosciuto e compreso, il riconoscimento della qualità umana dell’altro è una precondizione indispensabile: ogni comprensione che si manifesta nella più semplice cortesia di riconoscimento dell’alterità, come ad esempio, la parola come “buongiorno!”, diretta alla persona che si incontra appena si esce di casa o al parco. La comprensione va insegnata come necessità umana di riconoscimento dell’altro, a partire dalle relazioni primarie, purtroppo, invece, l’incomprensione regna nelle relazioni tra umani, imperversa nel cuore delle famiglie, nelle relazioni tra individui, popoli e religioni e nelle controversie. È planetaria, onnipresente, genera confusioni malintesi e scatena disprezzi suscita violenze e accompagna sempre le guerre. Molto, troppo, spesso si sceglie la via dell’umiliazione dell’altro. L’educazione alla comprensione reciproca tra umani, è una opera educativa principale, tanto verso i prossimi, che verso gli estranei, è vitale, affinché le relazioni umane escano dalla barbarie. Questo tipo di educazione potrebbe costituire la base di pace interiore di ognuno e più in generale tra gli esseri umani. La comprensione rifiuta il rifiuto, esclude l’esclusione (cfr. E.Morin), ci chiede di comprendere in primo luogo noi stessi, le nostre insufficienze. Nel conflitto ci chiede di argomentare, di confutare attraverso un linguaggio e parole corrette anziché scomunicare e anatemizzare. Ci implora a superare odio, disprezzo e di resistere alla legge del taglione, alla vendetta e alle barbarie interiori ed esteriori, soprattutto nei periodi di isterie collettive, alle quali abbiamo assistito anche recentemente.

Un’azione possibile: comprendersi

Metamorfosi, una riforma, ancor più di una rivoluzione. La conflittualità non potrà essere totalmente debellata o abolita ma almeno minimizzata e superata dalla reciproca comprensione. Sarebbe un progresso etico se ci fraintendessimo meno, una riforma del linguaggio della conoscenza e del pensiero che porta con sé una rigenerazione della educazione, della comprensione e delle relazioni umane; un circolo virtuoso la cui portata potrebbe apparire scoraggiante.

Un processo che inizia dalla parola

Parole ben pensate e dette alle quali segue un “buon agire”, una congiunzione del “saper vivere” che aiuta a sbagliarsi di meno, a comprendere ed affrontare le incertezze, accettare la condizione umana e attingere a sorgenti morali come solidarietà e responsabilità. Le parole che a volte offendono e umiliano usate invece per a guarire e per riconoscersi gli uni con gli altri, per portare a termine la missione storica della metamorfosi del saper “vivere pensare ed agire”, in una positiva erranza nel ventunesimo secolo. Sta a noi quali scegliere: giorno per giorno, momento per momento, luogo per luogo.

di Marco Ricciotti

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